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È morto il re, viva la regina!


È morto il re, viva la regina!
La nuova fiaba antica di Matteo Garrone

PRIMA PARTE (di Adalinda Gasparini)

Il Racconto dei Racconti di Matteo Garrone (Italia-Francia 2015) è il primo film italiano che si cimenta con il primo libro di fiabe scritto e pubblicato nel mondo: Lo cunto de li cunti (1634-36) di Giovan Battista Basile, napoletano come il regista. In questo testo cercheremo di far emergere la ricchezza della narrazione contemporanea mettendola in risonanza con quella della fonte secentesca. Ci piacerebbe che il lettore, nel caso in cui non abbia visto il film o non conosca il libro di Basile, tragga da questo nostro breve lavoro un desiderio irresistibile di vedere l’uno o leggere l’altro. Se invece ha una buona conoscenza di entrambi, speriamo che possa trovare qui spunti per comprenderli e amarli ancora di più.

Nella prima fiaba del Cunto de li cunti, che è anche la storia cornice della raccolta, si narra della melanconica principessa di Valle Pelosa, e del re suo padre, che sperando di farla sorridere invita a corte giocolieri, attori, acrobati e saltimbanchi: “Ma tutto era tiempo perduto, ca manco lo remmedio de mastro Grillo, manco l’erva sardoneca, manco na stoccata a lo diaframma l’averria fatto sgrignare no tantillo la vocca”. 

Questa scena è analoga alla scena iniziale del film, ma al posto della principessa c’è una regina seduta accanto al re suo sposo: non ride perché non ha bambini e la sola cosa alla quale pensa, la sola che vuole, è rimanere incinta. Ma ecco che giunge alla reggia un negromante incappucciato di nero, che rivela come la regina possa diventare madre solo se mangerà il cuore di un drago marino. Nella scena successiva vediamo il re che indossa un rudimentale scafandro e si immerge nelle acque delle Gole dell’Alcantara, che, come le altre location del film, è uno scenario più impressionante di tanti altri realizzati con mezzi digitali. Mentre il drago marino, pallido come i bambini che verranno al mondo, dorme, il re lo trafigge con la sua lancia, ma prima di morire il drago lo colpisce con la sua coda e lo uccide. Viene la regina e porta via il cuore ancora pulsante, senza degnare di uno sguardo il re che ha sacrificato la vita per lei. 

Seguendo le indicazioni del mago, la regina fa cuocere il cuore da una giovane serva ancora vergine, che appena lo immerge in un pentolone si trova gravida per i fumi di cottura, e un batter d’occhio è quasi al termine della gravidanza. La stessa cosa accadrà alla regina mangiando il cuore del drago.
Interrompiamo il racconto per osservare che Garrone, dopo aver preso l’inizio dalla storia cornice, di Basile, segue un’altra fiaba del Cunto: La cerva fatata. Anche in questa storia la coppia regale è sterile, ma l’accento è posto sul desiderio del re di avere un discendente. Quando il mago rivela il segreto del cuore di drago, il re non si muove da palazzo, ma invia cento pescatori che catturano la creatura marina. La cuoca è vergine come prescritto, ma è una bella damigella anziché una povera serva, e il potere fecondatore del cuore di drago dà a Basile lo spunto per uno dei suoi sorprendenti pezzi di bravura. La damigella,


…non cossí priesto mese a lo fuoco lo core e scette lo fummo de lo vullo, che non sulo sta bella coca deventaie prena, che tutte li mobele de la casa 'ntorzaro e 'n capo de poche iuorne figliattero, tanto che la travacca fece no lettecciulo, lo forziero fece no scrignetiello, le seggie facettero seggiolelle, la tavola no tavolino e lo cantaro fece no cantariello 'mpetenato accossí bello ch'era no sapore.    …non fece in tempo a mettere al fuoco il cuore e a farne uscire il fumo che non solo questa bella cuoca rimase incinta, ma tutti i mobili di casa s'ingravidarono e in capo a pochi giorni figliarono. E fu così che il letto fece un lettino, il forziere uno scrigno, le sedie delle seggioline, la tavola un tavolino e il vaso da notte un vasino smaltato, ma così bello che a vederlo era una vera delizia. 
    La cerva fatata, pp.18-21 (ebook in Fabulando)


Il registro comico, che è uno dei tanti registri intrecciati da Basile nella sua prosa barocca, è escluso dal film di Garrone che organizza il suo film scegliendo dal Cunto gli elementi più cupi e grotteschi. Mentre Basile ci invita a ridere della potenza fecondatrice del cuore di drago, Garrone fa seguire alla cottura un lungo piano-sequenza della regina, che si ritira in una sala bianchissima per mangiare con le mani il cuore gigantesco, ancora sanguinante nonostante la bollitura.
La cuoca e la regina partoriscono contemporaneamente due bambini che si somigliano come due gocce d’acqua, ma mentre Basile ci dice che sono due bei maschioni, che crescono forti e coraggiosi, Garrone ci presenta due esili gemelli albini, il cui pallore diafano, segno di una innata fragilità, rimanda al biancore del drago ed è quanto di meno somigliante alla bellezza latina di Salma Hayek.
In entrambe le storie i due bambini magici sono legati da un affetto così profondo che vogliono sempre stare insieme, e la regina ne è talmente gelosa che tenta di uccidere il figlio dell’altra. La sua stessa esistenza contraddice l’onnipotenza materna della regina, visto che una madre tanto inferiore a lei ha partorito un figlio indistinguibile dal suo. Dopo questo attentato alla sua vita, il giovane fugge ma prima di lasciare il principe fa scaturire una fonte col suo pugnale come segno del suo amore: se l’acqua sarà limpida, vorrà dire che lui sta bene, se diventerà torbida, che è in pericolo, se si seccherà, che sarà morto. Il giovane in fuga secondo Basile vince un torneo e sposa la figlia di un re, mentre nel film di Garrone si ferma in un povero paese dove sposa una giovane popolana.
In entrambi i casi, quando il principe vede la fonte intorbidata, monta a cavallo e corre a cercare l’amato gemello. Giunge al luogo in cui il suo doppio si era accasato, e la principessa o la popolana che aveva sposato lo abbracciano scambiandolo per il loro marito. Senza rivelare la sua identità, il principe viene a sapere che l’altro non ha fatto ritorno dalla caccia.
A questo punto le storie divergono definitivamente.

Basile racconta che il figlio della damigella, “c'aveva lassato la paura 'n cuorpo a la mamma”, è andato a caccia in un bosco infestato da un feroce orco, proteiforme e cannibale e si è perso inseguendo una bellissima cerva. Per ripararsi da un terribile temporale, il giovane trova riparo in una grotta. La cerva, che in realtà è l’orco, gli si avvicina, e quando il giovane la invita a entrare, chiede e ottiene che lui leghi la muta dei cani e allontani la spada. L’orco riprende la sua forma, lo cattura e lo getta in una fossa. Quando il principe viene a sapere del bosco e dell’orco, immaginando in quale pericolo sia caduto il suo gemello, parte ben armato, insegue la cerva fatata, ma quando si trova nella grotta, anziché cedere alle sue richieste la fa sbranare dai cani. Sconfitto così l’orco, libera il gemello e fa ritorno con lui alla reggia, dove la principessa dapprima resta interdetta, poi riconosce il marito e lo abbraccia felice. Il figlio della regina “dapo' essere stato no mese … pigliannose spasso a chillo paiese voze repatriare e tornare a lo nido suio”, portando alla damigella una lettera nella quale il figlio chiama la mamma a raggiungerlo.
Affrontando e vincendo la creatura feroce che vive nel bosco, regno di madre natura separato dalla civiltà, i due giovani hanno completato la separazione dalla madre tirannica, che la fuga dell’uno e la brusca partenza dell’altro avevano solo iniziato.

Garrone, dopo averci mostrato il principe che arriva nel paese dove il suo gemello si è fermato, ci riporta alla reggia, dove la regina, disperata per la fuga del figlio, che ha chiamato e fatto cercare invano, chiede aiuto al negromante. Questi, che a quanto pare si è stabilito nel palazzo, le dice: “Voi avete voluto separare qualcosa di inseparabile”.
Cosa significa veramente? Sia la fiaba di Basile, sia il film, raccontano che alla fine i due giovani si separano, più o meno felicemente. Eppure c’è qualcosa di inseparabile che la regina ha rimosso: sono stati generati dallo stesso padre, sia il cuore magico del drago marino, sia il re, che per procurarlo in Basile manda in mare cento marinai a cercarlo, e in Garrone dà la sua stessa vita.
Un doppio sacrificio nel film, che, se pensiamo alla vita del figlio che implica la morte del padre ci ricorda Edipo, che diventa re uccidendo Laio, continuando a turbarci a ventiquattro secoli di distanza dalla tragedia di Sofocle. È lo stesso mito che ha permesso a Freud di descrivere il nucleo centrale della vicenda umana, nella quale la crescita dei figli coincide con l’invecchiamento dei genitori, che allo stesso tempo desiderano lasciare figli dopo di sé e non sopportano l’avvicinarsi della propria morte.
Torniamo all’inizio del film, quando il negromante, prima di rivelare il segreto del cuore di drago marino, dice al re e alla regina:


  La nascita è sempre macchiata dalla morte, e la morte a sua volta è solamente un aspetto della nascita, e nemmeno il più… drammatico. […] Ogni nuova vita richiede la perdita di una vita, l’equilibrio del mondo dev’essere mantenuto.
LA REGINA: Io sono pronta a morire, pur di sentire la vita crescere dentro di me.
 


Queste parole contengono una verità, la stessa che abbiamo appena ricordato, perché l’invecchiamento e la morte di una gene¬razione procedono insieme alla nascita e alla crescita della nuova generazione. Ma la regina e il negromante trasformano questo nesso temporale in nesso causale: post hoc, ergo propter hoc. Come nella logica del sogno notturno e del delirio, se a un avvenimento ne segue un altro, il primo è causa del secondo. Per fare un esempio piuttosto attuale, se un disagio sociale è preceduto dall’arrivo di nuovi migranti, secondo questa logica gli stranieri sono acriticamente considerati responsabili del disagio stesso. 

La regina e il negromante pensano che per generare e crescere un figlio sia necessario morire, come se altrimenti gli esseri umani vivessero in eterno.
Nella storia il re deve davvero morire, se vuole procurarsi il potere fecondatore che non ha espresso. Poi tocca alla regina trovarsi di fronte alla scelta fatale quando suo figlio la abbandona. Il negromante risponde al suo appello con una frase enigmatica:


  Ogni desiderio violento come il vostro può essere soddisfatto solo con la violenza e questo ha un costo. 
LA REGINA: E voi sapete che sono pronta a pagarlo.
 


Non dicono altro: la regina in camicia da notte, bianca come un fantasma, si allontana accanto al negromante, altissimo, allampanato, e sempre incappucciato di nero, come la Morte del Settimo sigillo (Ingmar Bergman, Svezia 1957). 


SECONDA PARTE (di Claudia Chellini)

Intanto il principe sta cercando il gemello, che è caduto in una profonda caverna, e non riesce a camminare. Sente un rumore e chiama aiuto, ma proprio allora appare un mostro grigio-terra come la caverna, un pipistrello gigante, che lo minaccia con i suoi artigli ma non lo colpisce pur avendolo già alla sua portata. A questo punto il principe raggiunge il gemello, lo prende per le spalle e comincia a trascinarlo verso la luce attraverso un cunicolo. Il mostro continua ad agitare minacciosamente gli artigli e vibra un unico colpo che fa gemere il giovane ferito: il principe per difenderlo si frappone fra lui e il mostro che, ora in primo piano, si ferma, e lo guarda con occhi lucidi e vivi incassati nella testa a forma di teschio. Dà così al principe la possibilità di trafiggerlo col pugnale. 

Dopo aver guardato per qualche istante il mostro accasciato nella caverna, tornano alla luce e il principe accompagna l’altro sostenendolo fino alla porta della sua nuova casa. Si abbracciano con tristezza, in assoluto silenzio, poi il principe si allontana mentre si apre la porta dell’umile casa.
Noi torniamo col regista a guardare il mostro, e assistiamo alla metamorfosi del mostro, che si dissolve per tornare ciò che era: la regina, che ora giace morta in seno alla terra, in posizione fetale. Ha rinunciato a usare violenza sul figlio della serva per non uccidere il suo, e la violenza ha colpito lei stessa.

Questa regina ha una dimensione tragica che non ha riscontro nelle fiabe scelte da Garrone, e chiede di essere compresa. 
Esiste una locandina del Racconto dei Racconti che non abbiamo visto al cinema, con un grande labirinto bianco e una piccola regina. Il labirinto è quello di Donnafugata, dove, nella prima parte del film, la madre e il figlio già cresciuto giocano a nascondino. Lei corre, ride e lo chiama, ma lui le sfugge da una breccia per incontrare il suo doppio: vanno a immergersi nelle stesse acque che erano state la dimora del drago marino, dove il re è morto. In una delle scene più intense del film, i due giovani nuotano sott’acqua, mentre le guardie della regina li cercano, ma pur sfiorandoli non riescono a vederli. La scena anticipa l’impotenza della grande e bella regina di fronte ai due gemelli magici che la metteranno definitivamente in scacco alla fine della storia. 

Potremmo interpretare la morte della regina osservando che la sua melanconia è tale che nemmeno la nascita del figlio desiderato può colmare il suo vuoto. Per questo il suo abbandono, ovvero la separazione inevitabile, annulla tragicamente l’illusione di poter risolvere grazie a un figlio la sua angoscia mortale. In ogni caso, è importante per le storie del nostro tempo questa immagine della regina nel labirinto, quando si vorrebbe attribuire alle donne una maggiore capacità di affrontare le sfide poste dalla contemporaneità e perfino di risolverle, dimenticando che maschile e femminile sono due polarità fondamentali, ma mitiche, che permettono di articolare il senso della vita umana, non la descrizione della realtà dell’uomo e della donna. La potenza tirannica della regina, la sua tristezza, la sua determinazione, il suo coraggio, l’amore illimitato per il figlio, la imprigionano in un labirinto bianco e assolato. Troppa luce sulla donna, troppo potere illusorio, e alla fine lei si trova tragicamente sola. La grandezza di Garrone è nella comprensione di questo smarrimento, che il suo film racconta e che è sintetizzato dalla locandina del grande labirinto.

Del resto, se era un’impresa ardua trarre da Basile un film che tutto il mondo potesse vedere, l’operazione sarebbe stata impossibile se il regista non si fosse lasciato affascinare dalla ricchezza di senso del Cunto de li Cunti, che, essendo la fonte di tante fiabe europee, ha la pregnanza semantica di una rivelazione e la freschezza di una sorgente. 
Matteo Garrone ha raccolto l’eredità di un grande italiano, come ritrovando un padre della nostra cultura troppo poco conosciuto, e come ogni vero narratore ha trasferito, tradotto, le fiabe che ha scelto non solo in un linguaggio diverso da quello verbale, ma in storie che sono allo stesso tempo del XVII e del XXI secolo. 

Al di là di varianti come quelle che abbiamo descritto, diciamo che rispetto alla fiaba di Basile c’è una variazione narrativa sostanziale, perché mentre i protagonisti della Cerva fatata sono i due giovani, nell’opera di Garrone la protagonista è la madre regina, che primeggia nell’intero film.
Anziché la giovane generazione, è al centro della scena quella che la precede, come nella maggior parte delle serie televisive e in molti film imperniati sulle fiabe tradizionali. Pensiamo ad esempio a Maleficent (Robert Stromberg, US 2014) che racconta la storia della fata cattiva della Bella addormentata, o alla fortunatissima serie C’era una volta (US 2011-in produzione) dove la storia dell’unico bambino lascia tutto lo spazio alle storie di sua madre, della nonna materna, che è Biancaneve, della matrigna di lei e anche della madre di quest’ultima.
Pare che nel nostro tempo la storia dei figli, sempre protagonisti nelle fiabe tradizionali, si possa dare solo raccontando quella dei loro genitori.

La regina madre apre il film e muore, una principessa sopravvive e alla fine diventa regina.
Prima di soffermarci sul finale dell’opera di Garrone, dobbiamo dire qualcosa delle altre due fiabe che ha rinarrato.
In quella tratta da La vecchia scorticata il protagonista, interpretato dal fascinoso Vincent Cassel, è un re senza discendenti, che si cura solo di attorniarsi di donne compiacenti, e di conquistare quella che crede una vergine adolescente, finendo col trovarsi nel letto una vecchia decrepita. Gettata senza pietà dalla finestra del castello, la vecchia viene poi fatata, e diventando una bellezza preraffaellita conquista il re.
Nella storia tratta da Lo polece si racconta di un re, interpretato da un grande Toby Jones, che all’unica figlia preferisce una pulce. Elude la domanda della principessa che vorrebbe sposarsi, sognando l’amore che conosce dalle storie di Lancillotto e Ginevra, e si dedica interamente alla pulce, nutrendola col suo sangue e carezzandola con la tenerezza di una madre che allatta il suo bambino. Quando la pulce, che ha raggiunto le proporzioni di un porcello, muore il re la fa scuoiare, e promette la figlia in sposa a chi indovinerà a quale animale appartenga la pelle. Convinto che nessuno risolverà l’enigma, pensa di impedire le nozze della figlia, invece un orribile orco indovina e se la porta via in cima a una montagna altissima, nella sua dimora piena della carne cruda della quale si nutre. La giovane invoca e ottiene l’aiuto di una compagnia di giocolieri acrobati, la stessa che non aveva strappato nemmeno un sorriso dal volto cupo della regina melanconica.
Ma quando tutti si credono in salvo, l’orco li raggiunge e li uccide uno ad uno, lasciando in vita solo la principessa. Ma lei, con un coltellaccio che aveva sottratto al marito prima di fuggire, gli taglia la gola. Torna sola e coperta di sangue alla reggia del padre, e aprendo il fagotto che tiene in grembo gli mostra la grande testa dell’orco con queste parole: “Ecco il marito che avete scelto per me”. Il re padre in camicia da notte cade in ginocchio piangendo, e finalmente si scioglie in pianto anche la figlia, interpretata magistralmente dalla quasi esordiente Bebe Cave.

Siamo ora nel cortile di Castel del Monte, per assistere all’incoronazione della principessa, alla quale il padre lascia il trono. C’è il re seduttore con la bellissima moglie, che però si accorge che sta ritrasformandosi in vecchia e fugge dal castello, e c’è anche il principe albino, in abiti regali, che ricambia il lieve sorriso che gli rivolge la giovane regina. Forse questo è il finale meno infelice che possiamo immaginare in una fiaba del nostro tempo, nel quale si raccontano poche storie a lieto fine e sembra più facile immaginare una distopia che un’utopia.
Ma alla fine di questa scena accade qualcosa di inatteso, come sempre nelle fiabe degne di questo nome, quando la nuova regina, mentre cammina fra gli astanti che le rendono omaggio, leva lo sguardo verso il cielo: vede un acrobata che cammina su un filo che sembra acceso di fuoco o di sole, teso in cima al castello. Uno dopo l’altro tutti gli astanti guardano in cielo e restano così, mentre un sorriso radioso finalmente illumina il volto della giovane regina.
L’arte del racconto, che, come i poeti e gli acrobati, può procedere in equilibrio anche su un filo, non si perde, nemmeno se un orco uccide tutti gli artisti, se i re non sono all’altezza della loro funzione, se le regine madri sono perdute nel labirinto.
Il film si chiude con uno sguardo dall’alto sul giocoliere, che è quello del regista, e il nostro.

 

OPERE CITATE
Giovan Battista Basile (Gian Alesio Abattutis) Lo cunto de li cunti. A cura di Carolina Stromboli. Introduzione di Enrico Malato. Roma: Salerno Editrice 2013. 2 Tomi, pp. 1053.

Fiabe citate e consultabili in rete con testo a fronte: 
- Introduzione [fiaba cornice]; sito Psicoanalisi e favole.
- Lo polece; sito Psicoanalisi e favole.
- La vecchia scorticata; sito Internet Archive.
- La cerva fatata; sito di Fairitaly Associazione ONLUS. L’e-book che si apre da questa pagina fa parte di Fabulando, di Claudia Chellini e Adalinda Gasparini (2015).

FairinfoClicca qui per approfondire il confronto fra la versione secentesca della fiaba La cerva fatata e la narrazione contemporanea di Matteo Garrone. 


Tutti i siti citati sono stati consultati il 22 maggio 2016.