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1.
Carta fiabesca della successione |
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Quando
lo specchio disse che Biancaneve era più bella di lei, la
regina madre ...diventò livida d'invidia, e da
quel momento in poi odiò Biancaneve. Non ebbe da
allora altro pensiero che ucciderla per riavere il suo
primato, ma alla fine ottenne solo di morire, mentre
Biancaneve celebrava le sue nozze dopo tante peripezie. Quando nella casa del taglialegna rimase solo un tozzo di pane, la moglie lo convinse ad abbandonare Hänsel e Gretel nel bosco. I bambini però non furono divorati né dalle bestie feroci né dalla strega, e riuscirono a tornare a casa, ...la madre, invece, era morta. (Die Mutter aber war gestorben). Non c’è fiaba nella quale manchi il contrasto fra vecchie e nuove generazioni, e il crimine per eccellenza nelle fiabe, tentato quasi sempre, riuscito quasi mai, è il figlicidio. Sono figure parentali i genitori naturali o adottivi, poveri o ricchi, le streghe e le fate, gli orchi e i maghi, i re e le regine, i ricchi mercanti. Sono figure filiali i giovani sottomessi alla loro volontà, e il racconto è la vicenda della loro liberazione. Non basta allontanarsi: il compito imposto, di solito impossibile, va assolto, e la fuga da una prigione genitoriale è densa di rischi, anche mortali. Chiamiamo ingiunzione, e ne descriviamo dieci tipi, la costrizione alla quale la figura parentale sottopone il figlio o la figlia, costringendoli ad agire per sopravvivere, vivere, e, se le cose vanno come si spera, a conquistare la propria autonomia e l’amore fecondo. Il lieto fine realizza il desiderio di tutti: salire al trono significa diventare un soggetto non assoggettato, vale a dire autonomo. Le nozze felici rappresentano la condizione della fecondità. La presenza del dramma della successione nella vita quotidiana è attestata anzitutto dal mito del conflitto generazionale, che non tiene conto del fatto che le nascite e le morti si succedono senza una soluzione di continuità che permetta di definire correttamente una generazione diversa da un’altra. La verità di questo mito è nel fatto che il conflitto esiste fra genitori e figli, da sempre. E, probabilmente, per sempre. La tragedia greca ruota intorno a questo conflitto, e alle sue infinite varianti, e nel nostro tempo la difficoltà nelle relazioni familiari non è certo meno drammatica che in passato. La sua formulazione estrema più recente recita che le vecchie generazioni hanno consumato le risorse delle nuove generazioni, agendo quindi come i genitori di Hänsel e Gretel. Speriamo che i giovani trovino una soluzione. Fra tragedia e vita quotidiana le fiabe offrono un’area franca, nella quale si può entrare senza chiedere il permesso: professori e analfabeti, orientali e occidentali, abitanti del sud e del nord del mondo, bambini, adulti e vecchi hanno la stessa competenza e lo stesso diritto di ascoltare e raccontare una fiaba. Le fiabe presentano un rischio estremo – soccombere prima di sbocciare alla vita – e una possibilità di scampare al rischio mortale ottenendo un lieto fine che per essere irrealistico non è meno vero. Basta pensare al sollievo, o almeno al sorriso, che il lieto fine fa sentire quando Biancaneve finalmente si sveglia e trova accanto a sé i nani felici e il principe innamorato, o quando Cenerentola danza col principe mentre il resto del reame passa in secondo piano. Se le articolazioni del conflitto fra genitori e figli sono innumerevoli, perché qui se ne propongono dieci? Non si intende definire un catalogo, né una classificazione sensata, ma proporre una mappa, la Carta fiabesca della successione. È semplicemente una mappa, ovvero una specie di carta topografica, che per la grafica è tratta da una mappa cinquecentesca della Corsica, e ne ricorda due assai ricche di senso. La prima di queste è la Carte de Tendre secentesca che rappresentava allegoricamente le diverse tappe della vita amorosa. La seconda è la Carte du sens (Carta del senso) del matematico René Thom (1991), che cita espressamente quella secentesca. Non si tratta per noi di spiegare qualcosa né di definirlo, ma di costruire una mappa che permetta di muoversi in un territorio psichico estremamente complesso. Le fiabe possono essere considerate come un insieme omologo all’insieme dell’esperienza umana, e si sono formate nello scambio incessante fra popoli, scrittori, narratori orali. La loro struttura narrativa è forse la più potente fra quelle dei vari generi del racconto, e spesso entra, mimetizzandosi senza sforzo, in altri generi. Definirla, come si diceva, è impossibile, a noi però basta proporre uno strumento di navigazione, una mappa. Chi vuole partire con noi per il paese delle Fiabe, immenso, sconfinato, può cominciare proprio dalla Carta fiabesca della successione. Come visitando una città, avrà un posto in cui recarsi, perché lo ha già visitato, perché ne ha sentito parlare, o perché prova semplicemente il desiderio di conoscerlo. Lo attrae un’immagine? Punta la sua attenzione su un titolo? Click dopo click, touch dopo touch, potrà viaggiare a suo piacimento, e in qualunque luogo si trovi potrà tornare al punto di partenza – alla Carta fiabesca della successione, o a questa pagina, Fairinfo. Guardiamo insieme la Carta fiabesca della successione. In basso si vede il mare, figura del materno, perché la metà sud della carta contiene le fiabe che iniziano con un’ingiunzione della figura materna. La parte nord, sormontata dalle montagne, contiene invece le fiabe che hanno origine da un’ingiunzione paterna, rappresentata appunto dalle montagne. Se l’attante protagonista è femminile, le sue fiabe si trovano nella parte ovest della mappa, se è maschile nella parte est. Il simbolo del femminile filiale è la luna, del maschile il sole. Si ottengono così i quattro quadranti della mappa, delimitati dai fiumi che formano al centro il Lago della Generazione. La fecondità, che permette il succedersi delle generazioni, e la continuazione della vita, esige l’incontro, il corpo-a-corpo sia fra padri/madri e figli/figlie, sia fra attanti maschili e femminili. Nella mappa figurano i dieci simboli delle ingiunzioni parentali che possono essere presenti in uno, due, tre o in tutti e quattro i quadranti. A ogni simbolo corrisponde una fiaba, la capolista della sua ingiunzione in quel particolare quadrante. Aprendola si accede alla Carta della fiaba. Guardiamo quindi insieme una Carta della fiaba. Se nella Carta fiabesca della successione si sceglie, ad esempio, la Vetta del compito impossibile, con Rana rana, nel quadrante nord-est, si apre la relativa carta al centro della quale si trova un'illustrazione della fiaba. Con un click o un touch sull'immagine centrale si può aprire l’e-book di questa fiaba. In ogni Carta della fiaba c'è una piccola fata che porta alla sezione del Fairinfo relativa alla fiaba stessa. Fairinfo è il nome della presente pagina, nella quale si trovano indicazioni sulla struttura di Fabulando e note di lettura di ciascuna fiaba. Con un click o un touch sulla sezione in alto a sinistra si accede alla Carta dell'ingiunzione che caratterizza la fiaba che abbiamo aperto (la Vetta del compito impossibile nel nostro caso). Da questa carta si può accedere alle carte di tutte le fiabe caratterizzate da questa particolare ingiunzione. Più sotto si trova la sezione che permette di aprire la Carta del quadrante, al quale appartiene la fiaba che stiamo guardando (il quadrante nord-est per Rana rana). Questa carta consente a sua volta di accedere alle carte di tutte fiabe inscritte in quel particolare quadrante. La sezione in basso a sinistra dà accesso a un fairy-tour col quale proponiamo di visitare la fiaba della carta e tutte quelle relative alla stessa ingiunzione. Nella Carta della fiaba, inoltre, vediamo due diciture, presenti in tutte le carte di Fabulando: da una si può riaprire la Carta fiabesca della successione, dall'altra si accede alla pagina relativa alle Autrici di questa raccolta. Ogni fiaba di Fabulando è raccontata in un e-book, mentre solo alcune fiabe sono raccontate anche con altre forme narrative digitali: e-kamishibai, versione digitale del kamishibai, teatro di carta giapponese, animazione, storia della fiaba. La carta del Principe Ranocchio, ad esempio, presenta tutte queste forme narrative, alle quali si può accedere con un click o un touch sull'icona corrispondente che si trova sulla parte desta della pagina. (AG & CC) |
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2.
Attanti |
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Attante è il termine tecnico, utilizzato nel campo di studi delle narrazioni, per indicare coloro che si muovono nella storia. A partire dalla riflessione di Vladjmir Propp e degli strutturalisti, nel nostro lavoro di analisi della struttura narrativa delle fiabe, abbiamo individuato quattro tipi di attanti, solo quattro. In Fabulando, la chiave di lettura con la quale sono distribuite le fiabe nella carta fiabesca è quella della successione. In sostanza la domanda che ritroviamo in tutte le fiabe è: come fa il giovane a diventare adulto? E per “diventare adulto” intendiamo diventare autonomo e generativo, non più dipendente dai legami familiari e capace di aprirsi all’incontro con l’altro. In questa prospettiva si collocano i quattro tipi di attanti: attante filiale femminile e maschile, attante genitoriale femminile e maschile. L’attante di cui si racconta la storia è sempre quello filiale, perché la fiaba, come dicevamo, narra dei possibili percorsi che si possono fare per crescere. Naturalmente sappiamo che nella vita il processo di crescita non è circoscritto all’infanzia o all’adolescenza, sappiamo che è possibile sempre, e ogni volta che impariamo qualcosa ci sentiamo più adulti, a prescindere dalla nostra età anagrafica. Ecco, il fatto che l’attante protagonista sia un giovane, e un giovane che si trova in posizione filiale rispetto alle figure che incontra, rappresenta questa percezione dei nostri processi di crescita. E che il lettore o l’ascoltatore abbia sette o settanta anni si identificherà comunque nel giovane o nella fanciulla. Gli attanti con i quali il protagonista interagisce all’inizio della fiaba sono attanti genitoriali. Possono essere i genitori o possono essere figure che ne hanno la funzione perché sono vecchi o perché sono potenti: pensiamo alle fate, agli orchi, alle streghe, ai maghi, ai mendicanti, ecc. Il tipo di relazione fra l’attante protagonista e quello genitoriale dà il via ad un certo tipo di storia. Rimandiamo al paragrafo Ingiunzioni di questo Fairinfo per una più estesa descrizione di questo concetto. Qui vogliamo rilevare invece che c’è una differenza tra fiabe con attante protagonista femminile e fiabe con attante protagonista maschile. Prendiamone due che hanno origine da una medesima ingiunzione relativa allo stesso tipo di attante genitoriale, prendiamo cioè, ad esempio, La bella addormentata nel bosco e Re porco. Entrambe appartengono all’ingiunzione materna del Veliero della maledizione, ma l’una ha come protagonista la famosa, famosissima fanciulla che dorme cent'anni, l’altra un giovane che nasce nella forma animale di un porco. Non solo le vicende dei due protagonisti e l’andamento dei loro percorsi è molto diverso, ma prima di tutto è diverso proprio l’effetto che l’azione dell’attante genitoriale materno ha su di loro: un sonno mortifero per la fanciulla, la disumanizzazione per il giovane. Cambiamo ingiunzione e attante genitoriale e osserviamo due fiabe relative alla Fortezza della solitudine: Panepinto e Il corvo. Nella prima Betta non vuole sposarsi, nella seconda Milluccio vuole una donna impossibile. Da queste premesse similari, si dipanano due storie assai diverse. Betta, infatti, impasta zucchero, mandorle e acqua di rose e si fabbrica lo sposo dei suoi desideri, che però se ne va con un’altra donna, e la fiaba narra proprio del lungo viaggio di Betta per ritrovarlo. Ne Il corvo, invece, la storia prende avvio dalla decisione di Iannone di andare a cercare la donna che corrisponde al desiderio del fratello Milluccio e il momento in cui la trova si colloca a metà del racconto: molte e durissime prove dovranno affrontare i due giovani, prima di giungere al lieto fine. Nella Carta fiabesca della successione, quindi, a ovest abbiamo le fiabe con attante protagonista femminile e a est quelle con attante protagonista maschile. Fanno eccezione Hänsel e Gretel e L’Augel Belverde. In queste due storie, infatti, si narra di un’ingiunzione, il Patibolo della condanna a morte, che è tanto più terribile in quanto viene da entrambi i genitori: per sfuggirvi e avere salva la vita, la fiaba racconta che è necessario che agiscano insieme sia l’attante filiale femminile che quello maschile. Hänsel e Gretel finiscono insieme nelle grinfie della strega e insieme la sconfiggono, i gemelli dell’Augel Belverde sono abbandonati insieme e tutti e tre si muovono alla ricerca degli oggetti magici, l’ultimo dei quali sarà proprio l’Augel Belverde, punto finale e risolutore della storia. (CC) |
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3.
Ingiunzioni parentali |
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Introduzione | |||||||||||||||||
Un’ingiunzione è un ordine cogente, una costrizione che qualcuno, che ne ha il potere, impone a qualcuno altro, che non può sottrarsi. Abbiamo definito “parentali” le ingiunzioni delle fiabe presenti in Fabulando: sono cioè le figure genitoriali che impongono agli attanti filiali, i protagonisti, un compito o un esilio o una condanna. L’ingiunzione, che si trova all’inizio della fiaba, implica una reazione da parte dell’attante protagonista che, per fronteggiarla, è costretto a muoversi, iniziando così il suo cammino, spesso lungo e irto di pericoli mortali, verso il finale felice. Quando la madre ordina alla bella Caterina (Il Gatto Mammone) di andare dalle pericolosissime fate a prendere lo staccio, le impone un compito impossibile, quello di sopravvivere all’incontro con potenti figure magiche. Questo costringe la fanciulla a prendere delle decisioni, che faranno emergere la sua natura e saranno fondanti per la sua crescita. Quando il padre scaccia Nardiello di casa (Lo scarafaggio, il topo e il grillo), gli impone un esilio, un’esistenza priva di mezzi e lontano dalla protezione familiare: il giovane si trova a viaggiare solo con i suoi animaletti e così può incontrare la principessa Milla, curarla dalla sua melanconia e ottenerla in sposa. Le ingiunzioni che caratterizzano le fiabe di Fabulando sono dieci e trovano tutte un proprio posto nella Carta fiabesca della successione, raffigurate da un simbolo che le evoca. Alcune sono presenti in tutti i quadranti, la Palude dei derelitti, la Vetta del compito impossibile e il Labirinto dell’impegno impossibile. Due si trovano solo in un unico quadrante, la Torre della segregazione e il Castello dell’amore imposto. Altre sono in due quadranti, la Fortezza della solitudine, il Veliero della maledizione e il Patibolo della condanna a morte. Altre infine sono collocate in tre quadranti: il Bosco dell’esilio e il Bivio del compito possibile. Ciascuna ingiunzione aggrega più fiabe, a nord della Carta fiabesca della successione sono posizionate quelle imposte dalla figura paterna, a sud quelle imposte dalla figura materna. Sotto ciascun simbolo si trovano due scritte: la prima esplicita il nome dell’ingiunzione, la seconda il titolo della fiaba che abbiamo scelto come rappresentante di quell’ingiunzione in quel quadrante. Con un clic o un touch sul simbolo si accede alla carta della fiaba e da lì si può sostare sulla storia e poi continuare ad esplorare le fiabe di quell’ingiunzione, cliccandone o toccandone il simbolo che si trova in basso a sinistra in ogni Carta della fiaba. Le carte delle ingiunzioni, a loro volta, riportano la divisione in quadranti, in modo che ognuno possa vedere a colpo d’occhio come sono distribuite le fiabe del Patibolo della condanna a morte, del Bosco dell’esilio, del Veliero della maledizione, ecc. Nell’incontro fra ingiunzioni e quadranti si costruisce così uno strumento che consente di viaggiare in Fabulando senza perdersi: in ogni luogo ciascuno può sapere dove si trova rispetto alla mappa principale, la Carta fiabesca della successione, e avere sempre in evidenza i significati del percorso che sta compiendo, sapere cioè che sta percorrendo i sentieri di un’unica ingiunzione che ha scelto e della quale desidera conoscere le articolazioni femminili e maschili, o che sta sondando il territorio di un certo quadrante muovendosi fra ingiunzioni diverse, quindi diverse questioni che possono essere in gioco per un tipo di attante protagonista che affronta un tipo di attante genitoriale. Il mondo delle fiabe è, un po’ come la vita, un mondo nel quale sono possibili innumerevoli legami e innumerevoli corrispondenze: il rischio di perdersi nelle storie è altissimo, con la conseguente sensazione di girare a vuoto senza riuscire a trattenere un senso. L’Impegno impossibile che ci siamo assunte dando vita a Fabulando è stato quello di consentire a chiunque ami le fiabe, a prescindere da quanto le conosca, di poter viaggiare nel loro mondo su strade di senso, orientandosi ovunque si trovi. E se qualcuno poi vorrà perdersi, poco male: avrà sempre a disposizione un’icona che gli consentirà di tornare alla Carta fiabesca della successione, per iniziare un nuovo viaggio. (CC) |
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Vetta
del compito impossibile |
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Questa ingiunzione si trova nei quattro quadranti, vale a dire che l’attante genitoriale maschile può imporre un compito impossibile sia al figlio che alla figlia, come la figura materna può imporlo all’attante filiale sia femminile che maschile. Se una fiaba comincia con un compito impossibile, l’attante protagonista s’incammina per portarlo a termine, e tutta la storia racconta di come possa raggiungere l’impossibile meta, che è anche irrinunciabile. Quando il compito è assolto, si vive per sempre felici e contenti. Mentre il Bivio del compito possibile porta alla morte dell'attante, o, nel migliore dei casi, a tornare al punto di partenza dopo aver rischiato la vita, la Vetta del compito impossibile porta sempre a una felice successione. Se la vita è un compito, si tratta certamente di un compito impossibile. E l'attante protagonista che assume senza riserve il compito assegnato dal genitore, dopo aver superato ostacoli e affrontato rischi, lo assolve. Il lieto fine spetta analogamente agli attanti protagonisti delle fiabe che cominciano con l’ingiunzione del Labirinto dell'impegno impossibile, che a differenza di quelli delle fiabe della Vetta assumono volontariamente un compito senza che un attante parentale lo imponga loro. Fra le fiabe di questa ingiunzione, il Gatto Mammone racconta della matrigna che manda la bella Caterina dalle fate perché la imbruttiscano, e l’attante protagonista piangendo si mette in cammino. Lungo la via racconta la sua storia a un vecchietto e lo ascolta quando le rivela certi segreti della casa delle fate. Non sono istruzioni come quelle del Bivio del compito possibile, ma una specie di iniziazione che lascia a Caterina piena libertà nel mettere in atto quel che ha appreso. Un marchese esperto di enigmi promette la grazia a un prigioniero se qualcuno saprà porgli un indovinello del quale lui non troverà la soluzione. La protagonista di Indovina indovinatore vince la prova e la libertà per il padre. L’enigma riguarda l’ambiguità del linguaggio, la sua polisemia, che questo marchese, come Turandot, era certo di padroneggiare senza limiti. Tre principi ricevono dal re loro padre un compito, trovare la medicina che possa rendergli la vista (La Regina Marmotta), ma mentre i fratelli maggiori interrompono il loro viaggio trovando le loro spose senza aver assolto il compito paterno, il figlio minore lo continua, trovando sia il rimedio che una sposa regina, e se le calunnie dei fratelli invidiosi mettono a rischio la sua vita, non possono impedirgli di godere del lieto fine che merita. In Rana rana il re impone ai figli di prendere come futura sposa la fanciulla che troveranno dove si fermerà la palla d’oro che dà a ciascuno di loro, e mentre i primi due trovano delle belle fanciulle, Nicolino, che è il più piccolo, trova solo una ranocchia. Senza mettere in discussione il compito assegnato dal padre, con un atteggiamento scettico che contrasta con l’andamento paradossale della fiaba, Nicolino avrà la principessa più bella e virtuosa, e il padre lo designerà come suo erede al trono. La quinta fiaba di questa ingiunzione, Il testamento di una fata, offre la possibilità di vedere come una storia possa cominciare con due ingiunzioni diverse e avere lo stesso andamento. Qui è la madre a imporre al figlio di far sposare le sue sorelle ai primi che passeranno per via, ed è una vecchia a lanciargli una maledizione per la quale dovrà mettersi in cammino. Nei Tre re animali, che si apre con l’ingiunzione del Labirinto dell’impegno impossibile, è il figlio a scegliere di partire, mentre i genitori cercano di trattenerlo, ma quando si mette per via il suo cammino è scandito dagli stessi eventi e porta allo stesso finale felice della fiaba precedente: le sorelle con i loro sposi liberi da incantesimi e lui stesso con la bella che ha salvato da un orco ascendono al trono e vivono felici. (AG) |
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Labirinto
dell'impegno impossibile |
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Dall'ingiunzione del Labirinto del impegno impossibile possono scaturire fiabe che presentano vicende coincidenti con le storie della Vetta del compito impossibile. Nella raccolta di Fabulando questo caso è rappresentato da I tre re animali, che appartiene a questa ingiunzione, e dal Testamento di una fata, che scaturisce dall'ingiunzione della Vetta del compito impossibile. In entrambi i casi tre sorelle vengono portate in luoghi inaccessibili da sposi animali, in realtà principi stregati, e in entrambi i casi è il loro unico fratello a cercarle, intraprendendo un lungo viaggio, al termine del quale avrà trovato non solo le sue sorelle e una sposa per sé, ma avrà permesso ai tre cognati stregati di ridiventare esseri umani. Mentre il protagonista dei Tre re animali assume volontariamente l'impegno di ritrovare le tre sorelle, nel Testamento di una fata l'attante protagonista esegue le ultime volontà della madre ed è costretto a mettersi in viaggio avendo subito l'incantesimo di una vecchia. Entrambe le ingiunzioni includono un compito impossibile, e tutte le fiabe che prendono avvio da queste ingiunzioni hanno un lieto fine. Del resto vivere è un compito impossibile, come sono compiti impossibili, ricordando Freud, educare, governare e psicoanalizzare. Lasciando da parte il terzo, sulla cui irrinunciabilità si può dissentire, i primi due, che siano imposti o assunti volontariamente, sono da assolvere per l'esistenza della comunità umana e del soggetto stesso. Se pensiamo al compito impossibile come al raggiungimento della fecondità che esige l'alternanza delle generazioni, affrontarlo o assumerlo implica un soggetto che si allontana dalle sue origini, disposto ad affrontare qualunque prova pur di realizzare il suo obbiettivo. Sottrarsi a questo compito significa fermare la vita, rinunciare a generare, in ogni senso, nell'illusione di non invecchiare, quindi di non essere soggetti alla morte. Le tre sorelle dell'attante protagonista dei Tre re animali sono separate dal fratello, e a partire dal loro ritrovamento i tre discendenti maschili maledetti e la principessa rapita dal drago possono far ritorno al loro regno rendendo nuovamente possibile la successione e il flusso della vita. La fiaba dei Sette piccioncini presenta la stessa drastica separazione fra discendenti maschili e femminili, ma qui c'è un'unica figlia che parte alla ricerca dei sette fratelli perduti, e per trovarli compie il viaggio più ricco e complesso fra i viaggi di fiaba che conosciamo; il lieto fine è il felice ritorno dei fratelli riuniti alla sorella, che portano alla casa delle origini una ricchezza simile a quella conquistata da Hänsel e Gretel. Anche gli attanti protagonisti di Violetta e dell'Aquila d'oro non rispondono a nessuna ingiunzione, ma agiscono con la determinazione di tutti gli attanti fiabeschi che compiono un percorso impossibile, la prima annullando il dislivello che la separa dal figlio del re che vorrebbe disporre di lei, il secondo scegliendo come sua amata sposa la figlia del Re di Raona, (Aragona) nemico di suo padre, imperatore della Magna (Germania). Il successo della sua impresa verrà quando i due stati nemici, insieme a tutti i loro alleati, rinunceranno alla guerra, per benedire, in pace e allegria, le nozze dei due innamorati. La fiaba popolare di Meni Fari scaturisce dal desiderio impossibile per eccellenza, che però si può realizzare grazie alla scelta di tre doni che vengono concessi da Gesù attraverso San Pietro. Il fabbro Meni Fari protagonista di questa fiaba friulana, povero e astuto, non chiede ricchezze né giovinezza, ma qualcosa che gli consenta di mettere in scacco la morte e il diavolo. Nel mito greco questa sfida a superare i limiti è agita da Prometeo, che sottrasse una scintilla agli dei per donare il fuoco agli esseri umani. Meni Fari, fabbro come il dio Efesto, che forgiava armi e ornamenti col fuoco, ci ricorda al massimo grado il detto latino unusquisque faber fortunae suae est (ciascuno è fabbro della sua sorte). E alla fine pare che Meni Fari, entrato di soppiatto in Paradiso col suo magico violino, potrebbe perfino far ballare tutti i beati. (AG) |
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Bivio
del compito possibile |
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Questa ingiunzione comprende tre storie, Giovannin senza paura, Così finì il tonto, e Cappuccetto rosso, nella versione originaria di Perrault, che finisce col divoramento della bambina. Nel caso di Giovannino il protagonista è privo di paura, sembra quindi che per lui vivere non sia difficile, negli altri due casi la madre fornisce istruzioni precise per portare a termine un compito ordinario, come portare a macinare il grano o andare dalla nonna con un cestino di buon cibo. Compito possibile quindi, per opposizione con gli innumerevoli compiti impossibili che si trovano nelle fiabe. Per quanto appaia paradossale, il compito possibile porta l’attante protagonista alla morte, mentre il compito impossibile dopo lunghe peripezie porta al lieto fine. Proponiamo di prendere questa ingiunzione come occasione per riflettere sulla tendenza dei genitori, e degli educatori in genere, a nascondere ai bambini la morte e il dolore, la malattia in particolare. Illudendosi di risparmiare al bambino la percezione dolorosa della dimensione tragica della vita l’educatore non si prende cura del bambino, ma del proprio narcisismo, che nega questa parte della realtà. Ma molto presto il bambino scopre l’esistenza della morte, della malattia, della sofferenza, sia come esperienza personale che indirettamente: se non potrà parlarne col genitore penserà che la sua conoscenza sia illecita, eretica rispetto al dogma dei genitori, o, peggio ancora, penserà che il genitore ne sia talmente spaventato che è bene non parlargliene. Dovrà cercare di conoscerla o sperimentarla, correndo anche rischi gravi, mentre l’inclusione del dolore e della morte, vale a dire dei rischi connessi alla vita, nel campo della relazione, del linguaggio, può consentirne l’elaborazione, e l’integrazione nel patrimonio educativo familiare. L’ingiunzione del compito possibile è rappresentata da un bivio, perché sembra che l’attante protagonista si possa muovere facilmente, come se avesse di fronte a sé una via diritta, senza smarrimenti possibili. Appena si trova di fronte a un bivio, vale a dire a un'alternativa, si dirige regolarmente nella direzione opposta a quella indicata dal genitore. Dato che crescere significa scegliere, la sola possibile autonomia dell'attante è in questo caso applicare a rovescio le indicazioni genitoriali, e l’esito è fatale. Il legame simbiotico col genitore che si illude di poterlo proteggere dalla vita gli consente solo di trasgredire le sue indicazioni o di applicarle malamente: non avendo un desiderio suo, perché obbedisce al genitore, non scopre la sua strada. È ammaestrato dal genitore, come il povero tonto della favola umbra o Cappuccetto Rosso nella prima versione di Perrault, oppure non ha alcun insegnamento, come Giovannin senza paura: il soggetto autonomo non emerge in nessuno dei due casi. Se manca la percezione del rischio, perché il genitore pensa di poterlo evitare al figlio con le sue istruzioni, o perché è assente ogni riferimento al genitore, il lieto fine manca. Nella versione più popolare di Cappuccetto Rosso il lieto fine è possibile perché un cacciatore, figura paterna esperta della natura e capace di trarne nutrimento, viene a colmare quella mancanza. Si noti che in questo caso il finale consiste nel ripristino della situazione d'inizio, grazie a una specie di seconda nascita, mediata dalla figura paterna. (AG) |
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Bosco
dell'esilio |
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Nella fiaba di Fiore e Gambodifiore la matrigna, che ha solo una figlia brutta, odia i bei figliastri. Generosa con le fate, Fiore riceve doni magici: quando parla le cadono dalla bocca fiori, quando si pettina appaiono perle d’oro. La fiorente bellezza della fanciulla minaccia il primato della matrigna, che la scaccia con il fratello. L’esilio cessa quando il re si innamora di Fiore, ma la matrigna le sostituisce la propria figlia, come accade nel Gatto Mammone. Come sempre le fiabe raccontano che la vita che sboccia non si ferma, e alla fine tutti gli inganni della vecchia matrigna e della brutta sorellastra sono sventati. Le altre tre fiabe che prendono avvio con questa ingiunzione hanno un attante protagonista maschile, e come quella di Fiore e Gambodifiore hanno un lieto fine. Mentre l’attante protagonista femminile viene esiliata a causa della sua magica bellezza, come Biancaneve è condannata a morte e Cenerentola segregata, gli attanti protagonisti maschili delle altre tre fiabe del Bosco dell’esilio devono andarsene per il mondo a causa della loro inettitudine. In Giovannino e la pelle d'oca il protagonista viene cacciato e delegittimato dal padre perché invece di imparare un mestiere cerca solo di sperimentare il brivido della paura, che non ha mai provato. Nardiello, ne Lo scarafaggio, il topo e il grillo, ha dissipato buona parte del patrimonio familiare, e siccome continua a non seguire le indicazioni del padre scappa per non morire sotto le sue bastonate. La madre e le sorelle di Tontonio, ne La fiaba dell’orco, sono poverissime, e lui è uno sciocco che non si dà pena di aiutarle; quando la madre lo bastona senza pietà deve fuggire per non morire di botte. Tontonio è incapace di comprendere il linguaggio quanto il povero protagonista della fiaba umbra Così finì il tonto, ma essendo esiliato trova un’occasione per apprendere dall’esperienza. Limitandoci a queste fiabe del Bosco dell’esilio potremmo enunciare una legge: tutte le volte che un genitore scaccia i figli, i figli trovano la loro strada per crescere e arrivare a un lieto fine. Possiamo formulare questa legge in modo diverso: se l’attante protagonista maschile di una fiaba è incapace di provvedere a se stesso e provoca danni alla sua famiglia d'origine, solo allontanandosene può crescere e arrivare a un lieto fine. Possiamo quindi dire che l’inettitudine dell’attante maschile rappresenta un fallimento della sua educazione, e la fiaba non dice nulla delle possibili ragioni di questo fallimento. Dice però che se il genitore ne prende atto, e, rinunciando a cercare un rimedio, lascia che il figlio si muova autonomamente nel mondo, gli dà la possibilità di apprendere dall’esperienza ciò che non ha potuto apprendere crescendo col genitore. Il legame fra genitore e figlio è tale che senza una soluzione di continuità entrambi si legano inconsciamente così forte che rischiano di entrare in una dimensione tragica. La mancanza del lieto fine nelle fiabe dell’ingiunzione Bivio del compito possibile può rappresentare questa dimensione tragica. Di genere diverso dalla fiaba, la Parabola del figliol prodigo (Luca, 15, 11-32) racconta di un figlio minore che pretese la sua parte di eredità e volle lasciare la casa del padre. Il padre assegnò ai figli la loro parte e lasciò andare il minore senza chiedergli spiegazioni né dargli consigli. Il figlio minore sperperò la sua parte e finì a servire un estraneo che non gli dava nemmeno di che sfamarsi. Allora decise di tornare dal padre per chiedergli di tenerlo con sé come servo, e il padre lo abbracciò e fece una grande festa per lui, anche questa volta senza chiedergli né dargli spiegazioni. Educare è uno dei tre compiti definiti come impossibili da Freud, ma è un compito inevitabile. Il padre della parabola, per quanto in maniera diversa dai genitori dei tre attanti maschili del Bosco dell’esilio, si comporta come se sapesse che c’è nella soggettivazione una libertà vertiginosa che nessun educatore può padroneggiare. (AG) |
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Palude
dei derelitti |
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Per introdurre questa ingiunzione possiamo rammentare la sensazione che si prova in certi momenti, del giorno e della vita, quando nulla del nostro passato sembra aver dato frutto, e ogni nostra risorsa sembra inutile per il futuro. Nessuno ci ha mai amato, e il nostro amore, se c’è stato, non ha dato nulla a nessuno. La Palude dei derelitti corrisponde a questa percezione, e le fiabe la mettono in scena dicendo che gli attanti protagonisti sono talmente poveri che la loro stessa sopravvivenza è a rischio. Simili a contemporanei sottoproletari o emigranti senza permesso, questi attanti hanno perso entrambi i genitori e possono essere perfino sperduti in un bosco (La bambola smarrita). Solo Pietropazzo ha la mamma, ma alla sua mancanza del padre si aggiunge che lui è incapace di provvedere a se stesso, brutto, sgraziato e anche un po’ tonto. Tutte queste fiabe, però, appena la derelizione è messa in scena, dicono che all’interno della privazione c’è qualcosa che può sembrare inutile, come una gatta, una bambola o un pesce parlante, eppure può far uscire dalla palude l’attante protagonista e portarlo a diventare alla fine anche un re o una regina. Se la percezione di essere derelitti capita a tutti, è meno comune la via attraverso la quale questi attanti seguono il loro desiderio di una bambola o danno ascolto a un pesce o a una gatta parlanti. Per riavere o acquistare la bambola che amano, le attanti protagoniste de La bambola smarrita e della Bambola Popoavola rinunciano a ogni altra cosa, ed è la loro fedeltà alla legge del desiderio che rende possibile il racconto e il finale felice. Pietropazzo e il futuro Marchese di Carabas (Gatta con gli stivali e Gatto con gli stivali) sono affamati, e potrebbero mangiarsi la gatta ereditata o il pesce che hanno pescato, invece li ascoltano, anche se sembra impossibile che un animale cambi il loro destino. Speranza e desiderio sono congiunti, come disperazione e assenza di desiderio. Il passaggio da una palude a un trono, raccontano le fiabe, è possibile. Quasi impossibile però è rinunciare alla soddisfazione del proprio bisogno immediato, imposto con la stessa tirannia della fame dai propri sintomi, perché seguire il proprio desiderio implica il rischio di tutto il poco che si ha. Bisogna che la certezza della propria derelizione non impedisca completamente al desiderio, incerto perché privo di garanzie, di farsi sentire. Non si ricorderà mai abbastanza che le fiabe non raccontano che seguendo il proprio desiderio si esce dalla palude e si diventa re o regina, ma solo che seguire il proprio desiderio, dando ascolto a quella parte di noi che ci invita a farlo, è l'unica via perché possa accadere. Il confine fra la certezza infantile e l'incertezza adulta si presenta ogni giorno proponendoci di varcarlo e crescere, ma raramente lo riconosciamo. (AG) |
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Torre
della segregazione |
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La Torre della segregazione compare nella fiaba di Cenerentola a partire dalla versione di Walt Disney (US 1950), per rafforzare l’isolamento dell’attante protagonista vessata dalla matrigna, mentre l’alta torre con un solo finestrino caratterizza la fiaba di Prezzemolina fin dalla sua prima versione (Basile, 1634-1636). Nell’adolescenza la figlia normalmente sente di essere impedita nei suoi movimenti dalla madre, che ora percepisce come ingiusta, mentre nell’infanzia era stata oggetto della sua sconfinata ammirazione. Il suo desiderio di uscire, senza limitazioni di orario, procede insieme alle limitazioni poste dalla madre, che è una rivale per la fretta con la quale la figlia vorrebbe godere dei vantaggi di cui le pare goda la donna adulta. La sensazione di essere Cenerentola o Prezzemolina, che le fiabe mettono in scena con mezzi la cui ingenua semplicità non deve ingannare rispetto alla ricchezza di senso e alla tragicità dei conflitti che velano, riguarda questa fretta di crescere, di imporsi sulla madre, che la figlia considera ormai vecchia. Che aspetta a farsi da parte e lasciarle il passo? Allo stesso tempo il compito della madre, di riconoscere che la figlia si sta separando da lei, che è una donna, anche se così giovane e inesperta, capace quanto lei, e in futuro più di lei, di accendere il desiderio maschile, è talmente difficile che di solito non riesce. Nessun torre, né quella dove l’orca, figura ostile e magica che subentra alla povera madre di Prezzemolina, né quella di Cenerentola, che da Disney in poi diventa la prigione estrema, ben più costrittiva del camino, impedisce che, dove compare, la fiaba finisca con le nozze felici, con la bella ex-reclusa magnificamente abbigliata accanto al regale sposo. Del resto le fiabe dove una figura magica si impadronisce di una creatura umana finiscono sempre nel modo più vantaggioso per l’attante protagonista. Consideriamo quindi la Torre della segregazione come una costrizione alla quale corrisponde la faticosa liberazione dell’attante che la subisce come ingiunzione. Nella crescita una costrizione vale come ingiunzione, che il soggetto subisce fino a che, sentendo minacciata la propria possibilità di crescere, trova i mezzi per liberarsene. Le ingiunzioni che abbiamo scelto per ordinare le nostre fiabe possono essere considerate altrettante costrizioni (francese: contraint), dando a Fabulando una struttura centrata su una crescita che sarebbe impossibile senza una costrizione. Nella poesia seguire la costrizione del metro è la via stretta attraverso la quale sgorgano sonetti e poemi, come la piccola finestra, la sola apertura della torre, è il passaggio da cui il principe entra per uscirne con la bella. Nell’ultima splendida versione di Cenerentola di Kennet Branagh (US 2015) dalla piccola finestra della torre esce solo la voce della protagonista, ma questo basta perché il re finalmente la trovi e la liberi. (AG) |
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Veliero
della maledizione |
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Nel mare della Carta della successione, a est e a ovest, naviga il Veliero della maledizione, che come il Patibolo della condanna a morte non compare al di sopra del fiume che separa il sud materno dal nord paterno. L’area materna ha l’esclusiva delle ingiunzioni più crudeli, come se le madri nella crescita del soggetto fossero più pericolose dei padri. È come se le fiabe confermassero la tradizione millenaria per la quale la donna è diaboli janua (porta del diavolo) e legis prima desertrix (prima ad abbandonare la legge), come Eva col serpente. L’inferiorità della donna dipenderebbe dal fatto che Eva deriva dall’uomo, mentre l’uomo è formato da Dio, anche se si racconta che dopo aver creato la Terra, le piante e gli animali col suo desiderio e la sua parola formò Adamo usando la terra. Conseguentemente la forza generativa era fino all’Ottocento prerogativa del maschio, che aveva gli homuncula nello sperma, mentre la femmina aveva la funzione di nutrire e far crescere la nuova creatura (vedi anche: Favole e scienza). Allo stesso tempo la donna, se non induce l’uomo al peccato, se nasce e vive solo in funzione della sua maternità, è una creatura da venerare, e alla Madonna di fatto sono dedicate più chiese e rivolte più preghiere che al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo. Le Veneri paleolitiche, che sono le prime rappresentazioni del corpo umano, hanno le parti relative alla sessualità accentuate e rappresentate con efficace realismo – seno, ventre, natiche, cosce – mentre il loro volto è privo di lineamenti e mancano le estremità delle braccia e delle gambe. Dal corpo femminile sono rimosse l’espressione del volto, quindi il linguaggio, la capacità di movimento, la parte inferiore delle gambe e i piedi, e la capacità di relazione, gli avambracci e le mani. Passiva come la terra con il seminatore, la donna deve stare ferma, farsi trovare, non cercare, non parlare. Che la piasa, che la tasa e che la staga in casa, recita tuttora un detto veneto per descrivere la donna ideale. Il Veliero della maledizione e Il patibolo della condanna a morte riguardano solo la parte sud, materna, della carta, perché riguardano il femminile come terra da penetrare per trarne frutto e insieme come materia originaria e quindi inconoscibile. Per questo, perché fin dal paleolitico viene definita come inconoscibile, la donna contiene l’ignoto, la notte, la morte. Per questo il sangue mestruale ha potuto costituire un tabù, per questo la donna è ancora velata e segregata. Questa attribuzione del male estremo alla donna implica come conseguenza la sua capacità di agire il male con conseguenze terrificanti. Questa verità mitica è tuttora in vigore, nel mito ecologistico per il quale la madre terra condannerebbe a morte il genere umano che l’ha violentata, modificandola con le sue città e inquinandola col suo sviluppo industriale. Se fosse una fiaba di Fabulando, starebbe nel Quadrante sud-ovest e ci chiederemmo se risponda a questa ingiunzione del Veliero della maledizione o a quella del Patibolo della condanna a morte, insieme alla storia di Avatar (James Cameron, US 2009). Accenniamo al finale poco felice di questa bella fiaba contemporanea, che tutto il mondo ha visto e sentito. Jake Sully, l’attante protagonista maschile, si è salvato, ma il suo corpo umano è morto; i magri blu Na’vi possono anche essere migliori di noi, ma non sono esseri umani. La Terra poi, che è il nostro unico reame, è destinata alla morte, e dato che su Pandora restano solo due uomini, la catena delle generazioni umane si ferma per sempre. Il femminile arcaico e mitico che ha la sua prima raffigurazione nelle Veneri paleolitiche è ancora vivo, ma appartiene alle donne in carne ed ossa quanto agli uomini. Nelle fiabe la maledizione o la condanna a morte provenienti dall’attante parentale materno colpiscono sia i figli che le figlie. Il compito di liberarsi dal dominio di questa madre arcaica per entrare nel campo della parola è da assolvere perché rappresenta una precondizione per la crescita. Intendiamo quindi il Veliero della maledizione, come il Patibolo della condanna a morte, ingiunzioni imposte dalle attanti genitoriali femminili, come espressioni paradossali, che raccontano alludendo a qualcosa di inesprimibile. Non ha parole né espressione, come i volti delle Veneri paleolitiche, e le storie che raccontano il dramma del soggetto imprigionato in questa area sono facilmente fraintese. Bisogna ricordare che mettono in parola qualcosa che di per sé si sottrae al linguaggio, come la malattia psicosomatica, come se il soggetto in parte non fosse ancora partorito, come se la madre possedesse in parte il corpo dei figli e delle figlie, impedendo loro di crescere fuori dal suo elemento inerte e muto. La regina del Re Porco diventa madre grazie a tre fate, che la rendono perfettamente bella e inviolabile, ed escludendo da sé l’imperfezione, la espelle col figlio porcellino. Perché riprenda la successione delle generazioni non basta la sua magica gravidanza, né che accolga il figlio animale. Il porco ritrova la sua forma umana solo quando la terza sposa accoglie teneramente la sua natura animale, ma lui le vieta di dirlo ai genitori. Solo se la generazione dalla quale è venuta la maledizione è tenuta all’oscuro, la metamorfosi può diventare definitiva, e solo dopo la nascita di un erede umano dalla giovane coppia. L’umanità libera dal rigore dell’ideale ripristina il flusso della vita. Nella Bella addormentata nel bosco la maledizione viene dalla vecchia fata, che si vendica perché la sua antica potenza, la stessa di Atropo, è stata dimenticata. Fortunatamente insieme a questa fata spietata ci sono fate propizie, che mitigano la condanna. L'attante protagonista deve però passare un secolo intero nel sonno, che nella versione di Perrault (La Belle au bois dourmant), riguarda tutto il bosco oltre agli abitanti della reggia. Nella mitologia greca gli esseri umani spergiuri erano condannati a morte, mentre la stessa colpa, se mai un dio se ne fosse macchiato, veniva punita con un lungo sonno comatoso che somiglia a quello della nostra favola. Il giuramento era stato istituito da Zeus e veniva pronunciato sulle acque di Styx, dea fluviale gelida e sotterranea. Proponiamo questo nesso perché possiamo associarlo alle nostre fiabe: Styx significa brivido, lo stesso brivido unheimliche che provoca la pelle d’oca, l’emozione di fronte all’ignoto che fu fatale a Giovannin senza paura e della quale andava in cerca l’altro Giovannino (Giovannino e la pelle d'oca). La terza e ultima storia che compone questa sezione è una magnifica fiaba siciliana, Sfurtuna. La protagonista è maledetta dalla sua Sorte, sorella popolare delle mitiche Parche, o Norne, Fatae per i latini, e deve lasciare la madre e le sorelle perché la sua maledizione non ricada anche su loro. Le fiabe europee, per quanto abbiano precedenti certi e verificabili nella letteratura antica, e precedenti altrettanto certi ma inaccessibili nella tradizione orale, non nascono prima del XVI secolo, quando Giovan Francesco Straparola pubblicò alcune fiabe fra le novelle delle Piacevoli notti. La modernità delle fiabe implica attanti che rappresentano un soggetto moderno, che agisce individualmente, capace di dissoggettarsi dalle autorità parentali, affrontandone le ingiunzioni e seguendo la legge del desiderio fino al felice raggiungimento della meta. Una delle più belle immagini di questa possibilità è proprio nella favola siciliana di Sfurtuna, che dopo aver subito la maledizione della sua Sorte/Fata incontra la Gna Francisca, lavandaia del re, che la prende come aiutante. Alla solerte disponibilità di Sfurtuna a curare il bucato corrispondono gli oggetti femminili, abiti, belletti e ornamenti, che la lavandaia acquista per lei e per la sua Sorte. Pare che si possa modificare la propria sorte solo andando a cercarla anziché fuggirla, tentando di curarla, per quanto sia brutta, scontrosa e scarmigliata, portandole doni, lavandola e rivestendola. Femminile è l’acqua del fiume dove Sfurtuna e la sua protettrice lavano i panni del re, e questa attività della sfera femminile può rappresentare la capacità ricettiva, che accoglie ed elabora aspetti sporchi e minacciosi rendendoli puliti e propizi. Le mie pazienti con una storia di disturbi anoressico-bulimici trovano significativi e fecondi motivi tratti dalle fiabe che hanno l’ingiunzione del Veliero della maledizione e del Patibolo della condanna a morte. Se non avessimo parole e storie per agganciare qualcosa chiuso in un’area innominata e innominabile, non potremmo sperare di alleviare certe sofferenze. Non abbiamo altro che parole e storie, e qualcosa di vantaggioso può accadere solo se ricordiamo che sono ami ed esche false, favole, con le quali possiamo però pescare certe carpe di verità (parafrasando Freud [Costruzioni in analisi, p. 262] che cita Shakespeare: Your bait of falsehood takes this carp of truth [Hamlet, Act II Scene I, v. 61]). Né un palombaro né un tuffatore di Delo potrebbero vedere direttamente le carpe e i mostri acquatici nel loro habitat, e di questo luogo inaccessibile, l'inconscio, ipotizziamo l’esistenza senza poterla dimostrare. Non ha quindi una consistenza maggiore di quello dove le fate e le sorti, benigne e maligne, soggiornano. Non si può programmare un viaggio in questo luogo, ma possiamo immaginarlo, e nella mente possiamo ripulire e rivestire la nostra cattiva sorte. Il viaggio immaginato non è il viaggio reale, ma senza speranza non c’è movimento, e fantasticando o immaginando il pensiero e le emozioni si muovono. Questo movimento a sua volta può aprire al desiderio la porta che era stata murata. (AG) |
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Patibolo
della condanna a morte |
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L'ingiunzione del Patibolo della condanna a morte mette in scena un conflitto gravissimo, che poggia sull'ambivalenza che riguarda qualunque rapporto importante, e il legame fra madre e figlia potrebbe essere il più vitale e allo stesso tempo il più pericoloso di tutti. Senza questo corpo a corpo la vita non fluisce, ma senza una separazione la vita non può fluire. Come questa ingiunzione, quella del Veliero della maledizione implica un rischio radicale. Nascere, vivere, morire: il filo della nostra esistenza aveva nella mitologia greca tre sorelle immortali, la prima delle quali filava, la seconda avvolgeva il filo, la terza lo tagliava. Si chiamavano in greco Moire o Parche, e il fato (dal latino fatum, destino, plurale fata) di morte che dipendeva da queste filatrici non poteva essere modificato nemmeno da Zeus, sovrano degli dei olimpici. Dalla parola latina fatum, in particolare dal plurale fata, viene il nome della creatura ultramondana che nelle nostre fiabe appare quando il soggetto soccomberebbe a una minaccia. Il nostro fato non è nelle mani di Zeus, né dei nostri genitori. Si può incontrare, fuggendo, una fata soccorrevole, o una vecchietta, o una casa con sette lettini piccini piccini. Oltre il mondo della famiglia, matrice essenziale della nostra vita, c'è un mondo nel quale, rischiando, possiamo trovare un riparo, una noce o una nocciola magiche. La vita è più grande dei lacci che ci legano alla nostra storia e che allo stesso tempo ci imprigionano, e i nodi si possono sciogliere, per quanto siano stretti e complessi. Se ce l'ha fatta Biancaneve, chiunque può sperare di farcela. (AG) |
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Fortezza
della solitudine |
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Mentre nel Castello dell’amore imposto il legame tra padre e figlia è talmente forte che lo sposo si presenta come minaccioso o disgustoso, nella Fortezza della solitudine i genitori mancano, non sono nemmeno nominati – Il corvo e La ricotta bianca – oppure c’è solo un padre, che chiede inutilmente di sposarsi all’unica figlia – Panepinto - o all’unico figlio, come nella fiaba di Basile I tre cedri (vedi anche: I tre cedri, da Basile, nel sito Adalinda Gasparini, Psicoanalisi e favole. La fiaba teatrale di Carlo Gozzi L'amore delle tre melarance [1761] è tratta da questa fiaba, come l'opera lirica di Sergej Prokofiev [1919]). La fiaba più famosa della principessa che non vuole sposarsi è Turandot, scritta a Parigi all’inizio del Settecento dall'orientalista Pétis de La Croix, che conosceva questa storia dalla letteratura persiana. Ambientata, come la storia di Aladino, in una Cina immaginaria, Turandot è stata rappresentata come opera lirica a Pechino nel 1998, come se fosse finalmente tornata nel suo luogo d’origine. Favole di favole, che in questa dimensione espressiva si generano spontaneamente e fanno immaginare e sognare. Nella favola di Panepinto una fanciulla decide di farsi uno sposo di suo gusto chiedendo al padre mercante di comprarle farina d’Ungheria, acqua di rosa e pietre preziose, e siccome le riesce bene prega gli dei di dargli vita, ricordando quel che era successo allo scultore Pigmalione con la sua statua di Galatea. Così ha uno sposo di suo gusto, con l’approvazione del padre stupefatto, ma una regina glielo ruba durante la festa di nozze, e l’attante protagonista femminile per ritrovarlo deve camminare a lungo e sopportare pazientemente la smemoratezza di lui. Questa ricerca dello sposo perduto, che ha il suo prototipo nella peregrinatio di Psiche abbandonata da Amore nella fiaba di Apuleio, ricorrerà nelle versioni popolari di Re Porco (vedi anche: Re Porco, versione fiorentina, e Amore e Psiche, nel sito Adalinda Gasparini, Psicoanalisi e favole). Il corvo di Giambattista Basile ha ne La ricotta bianca una sua versione popolare calabrese, raccolta da una narratrice analfabeta nel 1931, che proponiamo in Fabulando, oltre che per il suo fascino, per mostrare la grande penetrazione del capolavoro di Basile nella favolistica popolare meridionale. È una fiaba crudele e cruenta, anche per questo ricca di fascino. Il protagonista maschile regna senza limitare il suo desiderio, e la passione per la caccia, racconta Basile, era tale che trascurava gli affari del regno. A sposarsi non ci pensa nemmeno, fino a quando l’immagine di una sposa impossibile si forma nella sua mente, legando il rosso sangue di un corvo appena morto, il nero delle sue piume e il bianco della pietra di marmo sulla quale è caduto; il marmo ricorda la morte e il sepolcro come il nero e il sangue del corvo. Il fratello minore del re agisce in questa fiaba come cercatore degli oggetti dal re desiderati, e riesce a trovarne molti oltre alla sposa ideale, ma tutti questi oggetti sono destinati a procurare la morte al re quando li riceverà in dono. Il fratello maggiore vuole una sposa viva che porti in sé i colori della morte. Sceglie, interpretiamo, vita e morte, come se potessero essere una cosa sola, e infatti la sposa ha come padre un negromante ne Il corvo, mentre ne La ricotta bianca ha come terribili genitori, un drago e una draga. La sposa perfetta viene quindi trovata per il re dal principe suo fratello, ma al prezzo della vita di uno dei due. Non ci sarà lieto fine se non dopo molte perdite, inclusa l’uccisione dei bambini nati dall’unione del re con la Bella, perché amare come una sola cosa, senza limiti, la vita e il rifiuto della vita, significa scegliere la morte per sé e per gli altri. Ci sono differenze significative fra Il corvo e La ricotta bianca, quando il re finalmente capisce che suo fratello per accontentarlo ha sacrificato la sua vita, delle quali si parla a proposito delle due fiabe. Potrebbe esserci un nesso fra il desiderio del re di questa fiaba, che combina il rosso del sangue del corvo, il nero delle sue piume e il bianco del marmo, e il desiderio di maternità della madre di Biancaneve: rosso del sangue che sgorga dalla puntura del suo ago, bianco della neve e nero dell’ebano. Ricordiamo che i Fratelli Grimm conoscevano bene il capolavoro di Basile. La regina madre di Biancaneve desidera dare vita a partire da un’immagine di morte, e cerca di fermare la vita stessa, l’avvicendamento delle generazioni, eliminando la figlia quando cresce e si fa tanto bella da minacciare il primato della madre. Ci sono importanti differenze fra Il corvo e La ricotta bianca quando il re sa che il fratello minore ha sacrificato la vita per renderlo felice. Ne Il corvo il re ama la statua del fratello più dei suoi bambini e li uccide rischiando di far morire di dolore alla moglie; a questo punto arriva il negromante come un deus ex machina e trasforma la tragedia in un finale felice. Nella favola calabrese il re ascolta i genitori della moglie che si sono trasformati in piccioni e parlano di come potrebbe ridar vita al fratello causando ai suoi bambini una morte solo temporanea. Il re di questa storia, e il fratello che cerca di accontentarlo, ferma la vita nella fortezza della sua solitudine, fissato a un’immagine perfetta, quindi inevitabilmente legata alla morte come arresto dell’avvicendamento delle generazioni. Il desiderio di una nuova vita fa incursione all’interno di questo specchio dell’ideale, lo stesso che cattura fatalmente Narciso. La fiaba dice che solo un lunghissimo viaggio, con un’abnegazione che esige il sacrificio di tutto ciò che si ha, anche la vita stessa, può guarire l’attante protagonista dal fascino per un’immagine allo stesso tempo morta e viva, come una statua, una fantasia o un riflesso. (AG) |
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Castello
dell'amore imposto |
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Il Castello dell'amore imposto, come la Torre della segregazione, figura solo in un quadrante della nostra Carta fiabesca della successione. Lo troviamo infatti solo nel quadrante nord-ovest, dato che le fiabe cha abbiamo scelto raccontano di un'attante protagonista femminile che per salvare o aiutare il padre deve vivere con un essere mostruoso. Con la stessa ingiunzione comincia anche la celebre Pelle d'asino di Charles Perrault, nella quale si racconta di un re che promette alla moglie morente di risposarsi solo se troverà una donna bella come lei. Dopo aver cercato invano una nuova sposa, il re si accorge che sua figlia è la sola al mondo bella come la madre, e pretende di sposarla. Ma la principessa fugge coperta da una pelle di un asino che nasconde la sua bellezza. Alla fine rivelerà la sua identità al principe straniero che si è ammalato d’amore per lei e vivrà felice e contenta, come la protagonista della fiaba antica L'Orsa e della fiaba popolare Le tacconelle di Maria di Legno. (Per questo tipo vedi anche le due fiabe dialettali O dente d'oo e Maria Intaulata, nel sito Adalinda Gasparini, Psicoanalisi e favole). A questa ingiunzione corrispondono inoltre le fiabe del tipo Cordelia, rappresentate in Fabulando da Occhi-Marci, che cominciano con un re che, come re Lear nella tragedia di Shakespeare, chiede alle tre figlie di dire quanto lo amino. Le figlie maggiori lo accontentano, mentre la risposta della più piccola lo fa andare su tutte le furie, e la scaccia..Anche nella tragedia di Shakespeare le figlie maggiori accontentano il padre dichiarandogli l'amore assoluto che pretende, mentre Cordelia, la figlia più piccola, dice di amarlo, ma come padre, altrimenti non potrebbe amare l'uomo che la sposerà. È interessante vedere come la fiaba, a partire dalla stessa ingiunzione dell’amore imposto che porta alla tragedia Lear e le sue figlie, trovi una via verso il lieto fine (Vedi anche: Marian Roalfe Cox, Three Hundred and Forty-five Versions of Cinderella, Catskin and Cup O' Rushes, London 1893. Vedi inoltre: Adalinda Gasparini, La luna nella cenere. Analisi del sogno di Cenerentola, Pelle d’Asino, Cordelia, 1999). Nelle fiabe come La Bella e la Bestia, che è la versione più nota del suo tipo, della quale la catalana di Alghero, Belindu, è una variante, il padre è minacciato di morte dalla Bestia, alla quale ha rubato una rosa per la Bella sua figlia. La vita del padre sarà risparmiata solo se una delle figlie andrà volontariamente a vivere con la Bestia. La morte del padre è rimandata dal sacrificio volontario della figlia: la giovane generazione è pronta a rinunciare alla propria vita per salvare quella del genitore. In ogni caso la successione per l'attante protagonista è impossibile, e la storia continua con l'incontro con la creatura mostruosa, che tratta Bella come una regina, e accetta malinconicamente che non possa amarlo. Al padre perfetto, amato fino al sacrificio estremo, corrisponde uno sposo mostruoso, che però si prende cura della Bella prigioniera, trattandola come una vera regina e accettando il rifiuto con cui lei risponde alla sua proposta di matrimonio. Al rapporto ideale figlia/padre segue un rapporto impossibile fra bellezza e bruttezza. La Bella salva il suo legame perfetto col padre accettando di essere prigioniera di un essere repellente, mentre la Bestia deve farsi amare dalla Bella per liberarsi dalla maledizione che lo condanna a un corpo mostruoso. L'attante protagonista di questa fiaba è la Bella, perché è l'ingiunzione paterna a dare avvio alla vicenda, mentre la Bestia è confinata nel suo castello e nella sua forma orrida per una ragione che solo qualche volta viene rivelata alla fine della fiaba; si tratta in ogni caso di una creatura molto potente che il principe ha rifiutato di sposare, e che si era vendicata condannandolo a un corpo mostruoso fino a quando una fanciulla non si innamori di lui senza conoscere la sua vera natura. Nella fiaba romanesca Rana rana, che comincia con l'ingiunzione della Vetta del compito impossibile, è la bella sconosciuta a spiegare all'incredulo Nicolino che è proprio lei la ranocchia che credeva di dover sposare: Avete da sape' che io ciavevo 'n'affatatura ; e rimanevo ranocchia sin'a ttanto che nun avessi trovato un giuvinotto che, ssenza sape' ch'ero bbella, m'avessi sposato. Nella raccolta Fabulando un quarto tipo di fiaba ha inizio con l'ingiunzione del Castello dell'amore imposto: un animale - un ranocchio nel nostro caso - soccorre l'attante protagonista femminile, chiedendo in cambio che gli permetta di starle vicino come se fosse la sua sposa. Di questa principessa sappiamo solo che ama giocare con la sua palla d'oro, e che prova tanta repulsione per il piccolo pretendente, indesiderato quanto la Bestia dalla Bella. Nel Principe Ranocchio notiamo possiamo anche notare come il padre le imponga di mantenere la sua promessa e lasciare che il ranocchio mangi dal suo piatto e dorma nel suo letto. Solo tollerandone la presenza, e accettando di baciare il viscido ranocchio, metterà termine alla maledizione che costringeva un bel principe a quella forma animale. Osserviamo infine che l'habitat del ranocchio è l'acqua, elemento femminile come la terra, e che la trasformazione in animale derivava da una creatura femminile. Nell'imposizione amorosa il padre figura come sposo incestuoso o come causa, volontaria o involontaria, dell'unione della figlia con uno sposo animale o con uno sposo misterioso e spaventoso - quest'ultimo caso si verifica nella fiaba latina Amor et Psyche di Apuleio. L'idealizzazione dell'amato può apparire come una forma d'amore e di devozione, che però implica l'attaccamento incestuoso al genitore amato e idealizzato nell'infanzia. Solo la graduale accettazione della disturbante estraneità dell'altro scioglie l'ingiunzione del Castello dell'amore imposto, sia che si racconti di un padre che pretende di legare a sé la figlia per sempre nell'incesto, come in Pelle d'asino e ne Le tacconelle di Maria di Legno (sia che si racconti di una figlia che non esita a morire per salvarlo. I genitori sono imposti alla figlia e al figlio, e idealizzarli è inevitabile e necessario nella prima infanzia, mentre la maturità esige l'elaborazione della perdita di questo ideale, che fa della figlia o del figlio creature perfette in quanto partner scelti da/che hanno scelto - questo amante ideale. Il divieto dell'incesto rende possibile tracciare un confine fra generazioni, così che il tempo possa fluire, irreversibile, rendendo possibile la separazione, l'avvicendarsi delle generazioni e la fecondità rinnova la vita. Perché accada occorre che gli filiali attanti femminile e maschile sperimentino il desiderio uno dell'altra, attraverso la possibilità di perdersi: la Bestia teme che la Bella non tornerà da lui, ma nonostante questo la lascia andare, mentre la Bella teme che la Bestia sia morta a causa della sua dimenticanza, e per non perderlo è pronta a sposarlo. Nelle fiabe come Pelle d'asino il gioco fra perdersi e desiderarsi si realizza negli incontri al ballo, dal quale la protagonista fugge in incognita, come Cenerentola, facendo crescere il desiderio del principe finché si ammala d'amore. E come Cenerentola perde la scarpetta, così Pelle d'asino lascia indizi grazie ai quali il principe potrà finalmente scoprirla. (AG) |
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4.
Quadranti |
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Introduzione |
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Una mappa che aiuti ad orientarsi nel mondo
delle narrazioni fiabesche necessita di un dispositivo
semplice, chiaro e noto a tutti, perché ciascuno possa
fare il suo percorso senza perdersi in quel mondo
caratterizzato da innumerevoli storie e personaggi che
si combinano in modi ben conosciuti o sorprendentemente
diversi, dando origine alle fiabe che sappiamo, a quelle
che non avevamo mai sentito e a quelle nelle quali
riconosciamo un personaggio o un episodio ma che poi
hanno degli sviluppi per noi del tutto nuovi.
Un dispositivo semplice, chiaro e ben conosciuto per orientarsi, dunque. Cos’altro se non i punti cardinali che da tempo immemorabile guidano i viaggi per mare e per terra degli esseri umani? Nord, sud, est, ovest: in base alla posizione del sole rispetto all’orizzonte tutti noi possiamo identificarli. Ma nel mondo di Fabulando i riferimenti sono diversi. La prospettiva delle narrazioni fiabesche è quella dell’attante giovane (pensiamo a Biancaneve, a Cenerentola, al ragazzo che diventerà il Marchese di Carabas), è sua la storia che si racconta, suo il percorso verso l’autonomia che caratterizza l’adulto. Ogni attante protagonista si trova, all’inizio della fiaba, a doversi confrontare con una figura di tipo di genitoriale e con l’ingiunzione che comporta: quello è il suo riferimento principale. E le cose cambiano se si tratta di una figura materna o paterna: il confronto con l’una o con l’altra esige prove diverse e porta su strade diverse. Non solo, l’attante protagonista può essere una fanciulla o un ragazzo e anche questo è fondamentale: la differenza fra femminile e maschile nelle fiabe è delineata con chiarezza, i percorsi delle fanciulle non sono quelli dei ragazzi e viceversa. E rispettando questa diversità è possibile l’incontro. Eccoli quindi i punti di riferimento che possono aiutare a orientarsi in Fabulando: il sesso dell’attante protagonista e quello della figura genitoriale, ciascuno con una polarità: femminile/maschile il primo, materna/paterna il secondo. Sono dunque quattro, come i punti cardinali. E il tratto fondamentale è proprio la polarità. Qualcosa che va nella stessa direzione dell’opposizione sole/luna che simboleggia l’opposizione maschile/femminile: in alcune lingue la parola ‘sole’ è maschile e ‘luna’ femminile, mentre in altre è esattamente il contrario; quello che comunque è sempre presente è la polarità fra i due. La posizione a nord delle ingiunzioni paterne è stata pilotata dal simbolo che abbiamo scelto: i monti. La principale catena montuosa italiana, le Alpi, si trova a nord. E lì abbiamo collocato le ingiunzioni paterne, quelle materne si sono naturalmente trovate al polo opposto, a sud, con il mare che è simbolo universale della madre. Abbiamo messo a ovest le fiabe con attante protagonista femminile: nelle carte geografiche e nelle mappe ovest è a sinistra, e l’orientamento della nostra scrittura è da sinistra verso destra. Abbiamo voluto cominciare da lì, dalle storie del femminile, che sono le più numerose fra le narrazioni fiabesche. A est, quindi, abbiamo posto i racconti con attante protagonista maschile. Abbiamo così i quattro quadranti che organizzano quasi tutte le fiabe di Fabulando. Ma ne sono rimaste fuori alcune, Hänsel e Gretel e le versioni de L'Augel Belverde, le cui ingiunzioni sono sia materna che paterna e gli attanti protagonisti sia femminili che maschili. Per loro abbiamo inventato un quadrante impossibile sud-nord-est-ovest. I quadranti quindi, insieme alle ingiunzioni, sono il principale dispositivo di orientamento all’interno di Fabulando: nella carta di ogni fiaba in alto a sinistra si trova l’indicazione del quadrante al quale appartiene e da lì, con un click o un touch, si apre la carta che mostra tutte le fiabe di quel quadrante, tutte cliccabili, per proseguire l’esplorazione e incontrare nuovi personaggi e nuovi storie. (CC) |
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Quadrante
sud-ovest |
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Si trovano in questo quadrante le fiabe nelle quali l'attante protagonista è femminile, e inizia il suo cammino, mettendo in movimento la fiaba stessa, in riferimento a una mancanza, a un ordine, a una costrizione, a una maledizione, a una condanna a morte agita dalla figura materna. La sola fiaba di questo quadrante nella quale la figura materna non impone nulla alla figlia è quella dei Sette piccioncini, che è anche la sola nella quale l'attante protagonista parte volontariamente per rimediare alla mancanza della figura materna, vale a dire della madre stessa e della levatrice smemorata. In tutti gli altri casi l'attante protagonista subisce una vessazione che va dalla segregazione di Cenerentola e di Prezzemolina, agita dalla figura materna personificata nel primo caso dalla matrigna, nel secondo dalla strega, alla maledizione e alla condanna a morte che costringono a un sonno comatoso la Bella addormentata e Biancaneve, passando per il compito possibile ma pericolosissimo imposto dalla mamma di Cappuccetto, per l'esilio di Fiore e Gambodifiore imposto dalla matrigna, per il compito impossibile del Gatto Mammone imposto dalla madre, e per la condizione derelitta della Bambola Popoavola, derivante dalla morte della madre molto povera che lascia alle figlie solo una cassettina piena di stoppa. Da osservare che la Torre della Segregazione si trova solo in questo quadrante, e che il Veliero della maledizione e il Patibolo della condanna a morte sono presenti in questo quadrante e nel quadrante sud-est, vale a dire solo quando l'attante protagonista, femminile o maschile, deve rispondere a una persecuzione che tende alla sua stessa eliminazione, e che riguarda la figura materna. Chi ne deducesse che le madri sono più pericolose dei padri mancherebbe la comprensione delle fiabe: è la relazione con la madre ad essere particolarmente pericolosa, ma è da questa relazione che viene a ogni essere umano la vita e il primo nutrimento, fondamento e modello di ogni nutrimento futuro. Le fiabe del quadrante sud-ovest hanno una attante protagonista bella, buona e innocente, anche se, come Cenerentola hanno fatto fuori la prima matrigna, e del resto la morte della madre buona significa l'impossibilità di entrare in contatto con la madre donatrice. A questa figlia perfetta corrisponde una madre che arriva a ordinare la morte della figlia e a volerne mangiare il cuore. Ma la fiaba mette in scena un conflitto perché il sollievo che si prova identificandosi con la parte buona e perseguitata protegge dall'ansia e allo stesso tempo permette che emergano contenuti inconsci distruttivi che nella vita di tutti i giorni riguardano la relazione fra madre e figlia. Nella chiave della successione, possiamo proporre una costante comune a questo conflitto, che può presentarsi nelle fiabe in innumerevoli forme, e nella vita in tante forme quante sono le persone che lo vivono. Le fiabe raccontano che la madre non vuole essere superata dalla figlia, e fa di tutto per fermare il tempo. Nella vita, alla madre che non tollera di invecchiare, di veder sfiorire la sua bellezza, diminuire il suo potere, di avvicinarsi alla morte, corrisponde una figlia che vorrebbe prenderne il posto prima che sia trascorso il giusto tempo. È la fretta della bambina, che non vede l'ora di impadronirsi dei gioielli e degli abiti della madre, così affascinanti che solo gli abiti fatati di Cenerentola possono renderne l'idea, della bambina che vorrebbe il posto della madre accanto al padre e nella possibilità di dare la vita. L'attante protagonista femminile, la giovane, vince perché il tempo è suo alleato, non perché i figli siano migliori dei genitori. Ma è importante che si credano migliori, tanto importante che le fiabe raccontano di una figlia bella e innocente e di una madre che la perseguita, perché non si può affrontare la vita, così dura e rischiosa, se si crede di essere migliori di quanto siamo realmente. Per non vedere dove siamo, Perduti in un bosco stregato, Bambini che hanno paura del buio, Mai stati felici né buoni. (W. H. Auden, 1 settembre 1939) Nelle fiabe del quadrante sud occidentale si racconta sempre anche di un tempo che deve passare, un tempo senza tempo, o un tempo incredibilmente lungo, perfino cento anni, il secolo intero che dovette dormire la Bella Addormentata. Il tempo vince sempre, e la vita scorre facendosi beffe della nostra illusione di rallentarne o accelerarne il flusso. Bellezza e bontà sbocciano come i fiori, secondo la loro stagione, danzando secondo il ritmo irreversibile della vita. (AG) |
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Quadrante
nord-ovest |
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Nel quadrante nord-ovest la luna dell'attante protagonista femminile spande il suo chiarore sui monti paterni. Si trovano in questo quadrante fanciulle il cui legame con la figura paterna, un re, un mercante, o anche un malfattore, è tale che il racconto sgorga da questo legame. Manca alla nostra raccolta la fiaba più esplicita sull'imposizione dell'amore che si verifica nella relazione fra padre e figlia: Pelle d'Asino, come la intitolò Charles Perrault (Les contes de ma mère l'Oye, 1697), o Le tacconelle di Maria di Legno, come si intitola in Molise, o O dente d'oo, in Liguria (O dente d'oo è accessibile nel sito Adalinda Gasparini, Psicoanalisi e favole). Già presente come Doralice nella raccolta cinquecentesca di Straparola, la fiaba d'incesto figura due volte nel Cunto de li cunti di Basile: L'Orsa e Penta mano-mozza, e in quest'ultima il re che vuole imporre il suo amore non è il padre, ma il fratello della protagonista.. Come nelle versioni popolari sopra ricordate, nella favola di Perrault la protagonista impone al padre delle prove impossibili per dissuaderlo dalla sua fissazione incestuosa. Chiede, uno dopo l'altro, abiti di bellezza tali che le conferiscono lo splendore del sole, la serenità del cielo, o la grazia del mare con tutti i pesci, trasformandola quasi in una dea della natura. Ogni volta il padre le fornisce gli abiti richiesti, fino a che la figlia fugge coperta dalla pelle di un asino, che in altre fiabe è una veste di legno, o la pelle di una vecchia morta a cent'anni. La figlia fugge, con tutta la bellezza che ha affascinato irrimediabilmente il padre, che però è nascosta da una pelle immonda, che svela e rivela, come gli abiti meravigliosi, la relazione incestuosa col padre. Questo è il tratto fondamentale di questo quadrante: il padre si impone come oggetto d'amore, esplicitamente nelle fiabe che abbiamo finora citato, o implicitamente, come in Occhi-Marci. È anche il caso della Bella e la Bestia, dove l'amore del padre per la figlia gli fa rubare per lei una rosa, rischiando così la propria vita, mentre l'amore che la figlia Bella ha per lui le fa scegliere di sacrificarsi per salvarlo. L'ideale amoroso è talmente forte che solo la lunga frequentazione dell'opposto, la Bestia, può consentire una trasformazione. L'animale senza ideale è isolato in una forma ferina, l'ideale senza contatto con la parte animale è lontano dalla vita. Singolare la storia provenzale calabrese, Indovina indovinatore, dove l'incesto è limitato al nutrimento che la figlia dà al proprio padre carcerato, singolare che la relazione incestuosa sia l'enigma per eccellenza, tanto che il solutore di enigmi non riesce a risolverlo. Qui anche il marchese è figura paterna, affrontando la quale si ottiene la liberazione. Nella Bambola smarrita la protagonista ha un legame tale con la propria bambola che non può vivere se non la ritrova. L'aveva persa perdendo il padre, vale a dire perdendo l'ideale di se stessa come partner del padre. Questa parte ideale, senza la quale la principessa non può vivere, la sua bambola smarrita, si trova presso un principe, che ne è innamorato perdutamente. Il ritrovamento coincide con il loro incontro e con le nozze felici. Ideale è lo sposo Panepinto, e la protagonista può sposarsi solo con chi ha impastato da sé, dandogli vita. Violetta chiede al suo principe di metterla al posto dell'ideale, sottraendosi a tutti i suoi attacchi, e si rende così talmente desiderabile che alla fine diventerà regina. In questo gioco di contrasto, astuto e cortese, sempre condotto dall'attante protagonista femminile, l'orco che adotta Violetta rappresenta quella parte corporea, niente affatto ideale, senza la quale la fiaba non troverebbe il suo lieto fine. (AG) |
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Quadrante
nord-est |
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Il sole dell'attante protagonista maschile illumina a giorno i monti paterni, e le ingiunzioni paterne spingono gli attanti protagonisti delle fiabe di questo quadrante a lunghi viaggi. Vediamo i Giovannini, ai quali manca il desiderio di imparare un lavoro per vivere: Giovannin senza paura non ha genitori, la sua ingiunzione è la mancanza di ingiunzione. Tutto sembra possibile e facile per questo personaggio, che però soccombe alla vista della propria ombra, o del proprio posteriore. Il Giovannino dell'altra fiaba (Giovannino e la pelle d'oca), che prende avvio quando il padre lo caccia di casa, è egualmente privo di paura, ma ne sente la mancanza. La percezione della mancanza è la condizione per apprendere dall'esperienza, e il finale delle due fiabe è ben diverso. Nel Corvo, e nella Ricotta bianca che è una sua variante, il giovane re non ha genitori: la sua ingiunzione parentale è implicita: si oppone al padre dal quale ha ereditato il trono perché non volendo sposarsi non accetta di lasciare a sua volta il trono ai suoi discendenti. All'improvviso si innamora di una donna ideale attraverso un'immagine che lega la vita - il rosso sangue - e la morte - il freddo marmo. La fiaba procede districando questo impasto che impedisce che la vita fluisca e le generazioni si alternino, passo dopo passo, rischio dopo rischio. Con i suoi particolari cruenti questa storia basterebbe a mostrare come le fiabe non siano lievi giochi narrativi che eludono la dimensione tragica della vita. Due attanti maschili derelitti, Pietropazzo e il futuro Marchese di Carabas (Il Gatto con gli stivali), possono trovare un aiutante magico che li dota di tutto ciò che serve a sposare una principessa e diventare eredi al trono, come se alla concreta privazione derivante dalla povertà paterna potesse corrispondere un aiuto soprannaturale o magico che li porta a conquistare una principessa. Come il protagonista di Giovannino e la pelle d'oca, l'attante de Lo scarafaggio, il topo e il grillo, una delle fiabe più belle e comiche de Lo cunto de li cunti, viene scacciato e delegittimato dal padre: il disconoscimento paterno costringe i figli a contare solo sulle loro forze, così gli attanti diventano soggetti, e attraverso rischiose avventure possono giungere al lieto fine. L'aquila d'oro è la più antica delle fiabe della nostra raccolta, ed è più una storia cavalleresca che una fiaba: il principe Arrighetto, erede al trono dell'impero d'Alemagna, conquista Lena, o Elena, figlia del re d'Aragona, entrando da lei nascosto in un'aquila d'oro come i greci entrarono a Troia nascosti nel cavallo. Il suo antagonista paterno è quindi il re di Aragona, che scatena una guerra per punirlo, una guerra che coinvolge tutti i popoli europei. Nella favola friulana di Meni Fari il protagonista si trova a competere con una figura paterna ultramondana, San Pietro, che non vuole lasciarlo entrare in Paradiso dopo che è riuscito a mettere nel sacco la morte e il diavolo. Fiaba poco diffusa, Meni Fari mette in scena la vocazione anarchica dell'essere umano, un fratello fiabesco del mitico Prometeo, che ha come massimo desiderio la possibilità di prendersi gioco dell'Aldilà. Finalmente abbiamo due fiabe nelle quali l'ingiunzione paterna è esplicita, perché sia ne La Regina Marmotta che in Rana rana il re padre, per scegliere il suo erede, impone ai figli un compito impossibile. Ascenderà al trono l'attante che avrà tentato il compito impossibile, nel primo caso trovare l'acqua che rende la vita al padre re, nel secondo sposare la ranocchia che abita in un fosso. Impossibile? Nelle fiabe gli attanti che devono eseguire un compito impossibile o si assumono volontariamente un impegno impossibile, arrivano sempre al lieto fine, perché la vita è un compito impossibile che non si può eludere, a meno che non si arresti il flusso della vita, che è l'alternanza delle generazioni. (AG) |
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Quadrante
sud-est |
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Il sole dell'attante maschile sorge dal mare, o nel mare tramonta. Tramonta senza sorgere nella fiaba umbra del povero Tonto (Così finì il tonto), che non conosce la complessità del linguaggio e la responsabilità che ne deriva al soggetto. La madre, comprendendo la sua dabbenaggine, crede di poter rimediare con istruzioni precise, ma in questo modo il figlio non ha modo di formarsi, perché sa solo ripetere, senza mai interrogarsi, quel che gli viene insegnato. Nella fiaba di Cecino una donna si strugge per la mancanza di figli e ottiene che i ceci della sua pentola si trasformino in bambini, ma li elimina uno ad uno. Il desiderio della madre, raccontano le fiabe, non basta per vivere: Cecino si nasconde nel buco della serratura e non esce finché la madre non gli promette di lasciarlo in vita. Promosso subito ad aiutante del padre, Cecino finisce nella pancia di una mucca, dalla quale esce grazie al padre, e solo dopo questa seconda nascita vivrà felice e contento con i genitori. Un attante protagonista maschile deve andare in cerca delle sorelle che sono finite in una dimensione ultramondana perché hanno dovuto sposare tre re animali (I tre re animali) o i primi tre passanti (Il testamento d'una fata). Nel primo caso il protagonista pone rimedio a questa perdita del femminile di sua volontà, nel secondo è costretto a farlo per un incantesimo pronunciato da una vecchia. Ritrovare il femminile perduto significa riparare un lutto materno, e implica in entrambe le storie peripezie molto complesse. Il lieto fine ripristina il flusso della vita in quattro regni, altrimenti privi di eredi. Nella Cerva fatata la regina madre ha un figlio grazie al cuore di un drago marino, la cui potenza fecondatrice è tale che anche i mobili della reggia partoriscono seggioline e tavolincini. Anche la damigella della regina ha un figlio, che cresce insieme al principe ereditario. I due giovani si somigliano come due gocce d’acqua e sono legati da un amore che suscita l'odio della regina, che vuole uccidere il figlio della damigella. La coppia dei fratelli non fratelli per giungere al lieto fine dovrà disarmare la potenza femminile mortifera. In questo quadrante si trova la versione più antica, da noi rinarrata, del Gatto con gli stivali (La gatta con gli stivali), nella quale una madre, non un padre, lascia solo la sua gatta, non un gatto, in eredità al figlio minore, che insieme a questa aiutante magica trionferà sui fratelli, ai quali l'eredità materna aveva dato di che vivere normalmente. L'ingiunzione del Veliero della maledizione si trova solo nella parte sud della nostra mappa, come un'ipoteca che l'attante riceve alla nascita per una colpa materna o per un'incantesimo. L'attante protagonista maschile del Re porco ha forma animale, e per umanizzarsi esige dalla sua sposa un'accettazione impossibile: solo colei che accoglierà teneramente il regale suino tanto da coprirlo teneramente quando va a letto, conoscerà il suo segreto e alla fine avrà come sposo un bel principe. In una versione toscana della fiaba la sposa del porco per ottenere la sua definitiva umanizzazione deve consumare sette paia di scarpe di ferro, sette mazze di ferro e riempire sette fiaschette di lacrime (Re porco, versione raccolta da Vittorio Imbriani, nel sito Adalinda Gasparini, Psicoanalisi e favole). Appartiene a questo quadrante la storia con la quale Basile apre la sua raccolta, La fiaba dell'orco, nella quale l'ingiunzione materna è esplicita come quella paterna nella fiaba Lo scarafaggio il topo e il grillo. Un figlio perdigiorno e buono a nulla veniva in quella fiaba cacciato dal padre, mentre qui è la madre a scacciarlo, altrettanto adirata col figlio da bastonarlo tanto che non gli lascia altra possibilità che fuggire. In questa storia troviamo un orco d'aspetto orrendo, che però risulta un eccellente educatore, e che alla fine renderà il suo protetto capace di arricchire la madre e far la dote a tutte le sue sorelle. Magnifica versione della fiaba del ciuchino cacadenari, questa fiaba racconta come il soggetto possa formarsi anche in una condizione disperata, purché possa apprendere da se stesso e dalla propria esperienza. Gli attanti protagonisti maschili non vengono annientati dalle ingiunzioni della madre se possono separarsi da lei, e questo si realizza solo a condizione che si stabilisca una qualche alleanza con un aiutante maschile, sia un fratello, come ne La cerva fatata, siano i cognati, come ne Il testamento di una fata e ne I tre re animali, sia anche un orco educatore. (AG) |
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Quadrante
sud-nord-est-ovest |
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Si viaggi per tanto e tanto tempo nel Paese sconfinato delle fiabe, si decida di disegnare una carta che permetta a chi lo desidera di intraprendere questo viaggio, si scelgano le coordinate, i simboli e i segni più chiari e meno saturi. Si distribuiscano quindi sessantasei fiabe in questa carta, in modo che il viaggiatore che sceglie la nostra mappa possa visitarle godendone la bellezza, scoprendone l'origine, scorgendo i luoghi e le persone che l'hanno tramandata, immaginando tutti coloro, che senza essere ricordati, hanno contribuito a far godere noi, ancora oggi, della loro grazia. E poi ecco che una fiaba, e un'altra ancora, non si lasciano collocare in uno dei quadranti senza spostarsi più a sud, più a est, e ancora a nord, e a ovest... Per mantenere il senso della mappa la tentazione sarebbe di lasciare da parte la fiaba che non vuole farsi mettere a posto, ma l'amore per questa potente, delicata e democratica forma espressiva esclude il tradimento. E allora si aggiunge un quadrante impossibile, che segue il movimento della fiaba in tutti i quadranti, per poi capire che l'eccezione conferma la regola, ne testimonia la vitalità. La fiaba che ci ha fatto disegnare il quinto impossibile quadrante è una delle più amate e diffuse, Hänsel e Gretel, che fin dal titolo presenta due attanti, che sono egualmente perseguitati, egualmente attivi nel reagire al pericolo di soccombere. La fame induce la madre e il padre ad abbandonarli nel bosco dove dovrebbero essere divorati dalle bestie feroci. Soli e scampati a questo pericolo mortale, i due fratellini finiscono nella casetta dolce come le chicche, dalla strega che li accoglie e li vuole ben in carne per mangiarseli. La fiaba prende avvio dall'ingiunzione del Patibolo della condanna a morte, e anche se è la madre a volerla, è il padre a realizzarla: condanna paterna e materna quindi, contro il figlio e la figlia, che invece di morire insieme, insieme si salvano, sconfiggendo la strega che è trasformazione soprannaturale della madre divorante o reinfetante. La fame dei genitori, la carestia nella famiglia del taglialegna va intesa come esclusione della giovane generazione: solo una generazione può sopravvivere, e i genitori scelgono di fermare il tempo sacrificando i loro discendenti. E appena abbiamo disegnato il quadrante impossibile, con il mare materno, i monti paterni, e il sole e la luna che rappresentano i due attanti protagonisti, maschile e femminile, abbiamo ricordato una delle fiabe che amiamo di più, che non avevamo compreso nella raccolta proprio perché non riuscivamo a inserirla nella mappa: L'Augel Belverde. È questa una fiaba molto diffusa in Europa, che ha la sua prima codifica nella raccolta di Straparola, e che ha interessantissime analogie con la novella di Griselda, che Boccaccio pone alla fine del Decameron. La novella, tradotta in latino da Francesco Petrarca (De insigni obedientia et fide uxoris, nel sito Adalinda Gasparini, Psicoanalisi e favole) e rinarrata da Geoffrey Chaucer nei Racconti di Canterbury (Il racconto del chierico, nel sito Adalinda Gasparini, Psicoanalisi e favole, ), ebbe grande diffusione in Europa. Nella storia di Griselda (Griselda, nel sito Adalinda Gasparini, Psicoanalisi e favole) non ci sono creature magiche, ma i due protagonisti hanno caratteri, stili di vita si può dire, tanto particolari, che potrebbero derivare da un incantesimo di quelli delle fiabe. Anche in questa fiaba la persecuzione viene agita anzitutto da una figura materna, la madre del re che ha sposato la protagonista, ma è il re stesso a consentire il supplizio al quale viene sottoposta la sua sposa innocente. Ingiunzione quindi materna e paterna, che non implica solo l'umiliante reclusione della giovane regina, ma la condanna a morte dei suoi tre magici gemelli, due maschi e una femmina. Saranno i tre figli, una volta cresciuti, a ritrovare i loro genitori e rendere giustizia alla loro povera madre. Ma prima di ottenere il lieto fine i tre giovani affrontano prove nelle quali rischiano di morire, per conquistare oggetti magici che sono comuni all'antica alchimia, e del resto loro stessi hanno nel corpo segni che ne fanno creature quasi sacre, capelli d'oro e una stella in fronte. La maledizione dei quadranti a sud, che alla nascita degli attanti protagonisti li condannano a una forma animale o a un sonno simile alla morte, è qui una benedizione che viene in ogni caso dalla madre, come un dono straordinario al quale corrisponde l'invidia persecutoria della regina madre che non tollera di essere superata. Come ogni fiaba L'augel Belverde racconta di come la vecchia generazione cerchi di fermare la nuova generazione, come la sua decadenza reagisca con ferocia di fronte alla bellezza della creature appena nate e della madre che li dà alla luce. Bellezza magica, certo, ma in nulla superiore alla bellezza dei bambini piccoli per i loro genitori e per i loro nonni, che può dare gioia alla loro vita solo se sono pronti a vederli come i loro successori, a gioire pensando che vivranno oltre la loro morte. Il tempo, raccontano anche le storie del quinto, impossibile quadrante, non si ferma, per quanto tutto il potere della vecchia generazione possa tentare di impedirne il corso. Ogni fiaba poi racconta in modo diverso come questo gioco tragico col tempo possa inscenarsi, e come la vita tenda a fluire aggirando o dissolvendo gli ostacoli. Basta allearsi col tempo, basta saper attendere o cogliere il momento giusto per agire. (AG) |
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5.
Lago della Generazione |
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Il Lago della Generazione, al centro della nostra carta, raccoglie le acque dei quattro fiumi che, fungendo da coordinate, separano e uniscono tutti i quadranti. Essendo i monti paterni in alto e il mare materno in basso, il fiume che separa e unisce il quadrante nord-ovest e il quadrante nord-est nasce dai monti e fluisce verso il lago del quale è immissario. Ne esce un emissario con la stessa direzione, che separa e unisce il quadrante sud-ovest e il quadrante sud-est per gettarsi nel mare materno. I due fiumi che dividono i quadranti sud dai quadranti nord potrebbero essere emissari del Lago, significando che i discendenti si formano dal flusso e dall’unione degli ascendenti. Ma potrebbero anche essere immissari del Lago, rappresentando un’attante filiale femminile e un attante filiale maschile che venendo da luoghi diversi portano le loro acque al Lago della Generazione, trasformandosi così da discendenti, o figli, ad ascendenti, o genitori. In ogni caso il Lago della Generazione, con i suoi immissari e gli emissari, sta al centro della carta a significare che la successione è il nucleo e il cuore di tutte le storie. La carta rappresenta così al suo centro il triplice incontro generativo fra i quattro tipi di attanti: il primo, unione o nozze, fra ascendenti maschili e femminili; il secondo, generazione, fra ascendenti e discendenti, fra i genitori e i loro figli; il terzo, nuova unione o nuove nozze, fra discendenti, attanti protagonisti e coattanti maschili e femminili, che rinnova la vita. Il tempo scandisce questi incontri con un doppio andamento, costituito dall'intreccio fra un movimento diretto e irreversibile e un movimento circolare e ciclico. In quanto irreversibile il tempo esige che il discendente nasca e cresca, verso la condizione in cui potrà generare, mentre l’ascendente, che ha generato, invecchia. La morte, se non è tragicamente prematura, tocca prima all’ascendente, mentre il discendente eredita il trono della vita. L’andamento ciclico del tempo porta i figli nella posizione dei genitori, quando ereditano il trono della vita, per poi lasciarlo ai figli che prenderanno il loro posto, quando a loro volta abdicheranno o moriranno. Secondo il moto irreversibile del tempo, per il quale gli anni si succedono e il loro numero non torna, la nostra vicenda comincia alla nascita, come dal nulla, ci porta alla massima potenza nella maturità, che dura un certo numero di anni, e con la morte torniamo nel nulla. Secondo il moto ciclico del tempo, per il quale tornano settimanalmente i giorni e annualmente le stagioni e i mesi con le loro feste, noi rinnoviamo nascendo la vita dei nostri genitori, i quali a loro volta hanno rinnovato quella dei loro genitori, secondo una catena che ha inizio in un tempo immensamente lontano, e che senza mai interrompersi è arrivata fino a noi. Noi siamo un anello di questa catena, e come prendiamo vita dagli anelli che ci hanno preceduti, trasmettiamo la vita agli anelli che seguono. Nella catena è la nostra storia che il nulla non assedia, mentre la nostra esistenza individuale, separata dagli ascendenti e dai discendenti, è sempre assediata dall’insignificanza. Il maschile e il femminile, dei quali i luminari della notte e del giorno sono figure universali, come cielo e terra, costituiscono una coppia di opposti che si attraggono, ma è il loro intreccio costante, che li lega senza mai confonderli, a rappresentare la fecondità dell'incontro. Il calendario è composto di mesi, che seguono il ritmo regolare del sole che col suo moto apparente copre in un anno il cerchio dello zodiaco, e di settimane, ciascuna delle quali corrisponde alla durata di una fase lunare. Ai due moti del tempo corrispondono due modi del nostro essere, uno dei quali forma e tutela la nostra percezione di noi stessi come esseri unici e irripetibili, che hanno solo lo spazio e il tempo limitati della loro esistenza fisica. L’altro modo, che corrisponde alla dimensione ciclica del tempo, esiste fra noi e gli altri, non è né nostro né degli altri, ma è qualcosa che sta in mezzo e ci porta alla vita comune; così il singolo anello che siamo prende valore dai suoi vincoli con altri anelli, e il suo presente esiste per l'eredità che riceve dal passato e quella che trasmette al futuro. Non c’è equilibrio se non c’è riconoscimento del legame con il passato, con chi ci ha generato anzitutto, che da bambini è potente, donatore e persecutore come i re, le regine, le fate e gli orchi delle favole, e con le generazioni e le culture che ci hanno preceduto, senza le quali non esisterebbe la nostra, nella quale viviamo e parliamo. Simmetricamente non c’è equilibrio se non riconosciamo e non sperimentiamo il legame con le generazioni future, sia i figli della carne, che per i genitori sono belli e buoni come gli attanti protagonisti delle fiabe, sia il futuro come dimensione di progetto e di speranza, per il quale possiamo e sappiamo lavorare senza pretendere di raccogliere i frutti della nostra fatica. La bellezza delle generazioni future è come il finale felice delle fiabe: c’è, ma non se ne può sapere nulla. Ci deve bastare quell’istante di gioia che gustiamo quando arriva il finale felice, per quanto possiamo essere critici e disincantati. Nessuno può sapere se oltre il finale felice delle fiabe duri la pace feconda che viene solo enunciata. Ma se rinunciassimo a quel momento gaudioso, se non sorridessimo quando Cenerentola finalmente balla lievissima nel salone della reggia col principe innamorato, ci mancherebbe qualcosa di essenziale: la leggerezza del desiderio. Nei dialoghi di Platone capita una sola volta che una donna insegni la filosofia, nel Simposio, il dialogo intorno ad Amore/Eros. La donna, Diotima, racconta la storia della sua nascita, e svela l’errore nel quale anche i commensali di Socrate sono caduti: descrivevano Amore/Eros come perfettamente bello e buono pensando che coincidesse con l’amato. Amare significa desiderare al di sopra di ogni altra cosa, anche a rischio della propria vita, qualcosa che non abbiamo, che è fuori da noi, un altro essere, che il nostro desiderio rende perfettamente bello e buono. Questa perfetta bontà, che caratterizza, come abbiamo detto, gli attanti protagonisti delle fiabe, esiste nei figli per i genitori, e nei genitori per i loro bambini, e si trova nell’amato o nell’amata per l’amante. Per il figlio cresciuto la potenza e la bellezza del genitore è un’illusione svanita; per chi ha smesso d’amare la bellezza dell’essere un tempo amato è un abbaglio o una frode, e in ogni caso la passione violenta che spinge alla ricerca dell’altro impallidisce col tempo. Per il genitore invece il figlio è sempre amato con la stessa intensità, gaudiosa nell’intesa e nello scambio di doni, dolorosa nell’incomprensione. Come abbiamo ricordato, il bambino ricambia con tutto se stesso questo amore, ma appena raggiunge la maturità manda in pezzi e sbriciola il riflesso del genitore ideale, per cercare lontano dalla sua origine qualcosa o qualcuno che gli permetta di ricostituire lo specchio della sua bellezza. Un’impresa, un’opera, un amante, un figlio, sembrano venire a noi riflettendo la nostra immagine ideale, perché in una parte di noi abbiamo sempre bisogno di credere che siamo, o che siamo stati e che diventeremo, perfettamente belli e buoni, proprio come Cenerentola e il principe azzurro. Se non intervenisse la delusione, se lo specchio e il riflesso non si frantumassero col tempo, la vita non fluirebbe, perché si resterebbe immobili, come Narciso e la sua immagine. Ma la delusione è difficile da sopportare, perché se è vero che nel ciclo del tempo tutto torna, come i fiori e i frutti nella bella stagione, non è meno vero che il fiore e il frutto di questa particolare stagione appassiranno, o marciranno, e non torneranno più. La sola cosa certa è che questa permanenza attraverso la generazione e questa precaria presenza del soggetto con la sua irripetibile unicità, formano un intreccio, del quale possiamo riconoscere o non riconoscere un senso: è comunque il modo di fluire della vita, che della morte degli ascendenti si serve perché i discendenti possano prenderne il posto, così che il vigore e la bellezza dei figli, dei giovani, rinnovi la vita mentre gli ascendenti invecchiano. Senso primo o ultimo della vita, mistero da velare più che da rivelare, la generazione si compie attraverso i tre incontri che abbiamo detto sopra, fra ascendenti, nelle loro nozze, fra ascendenti e discendenti, nella generazione, fra discendenti, nelle nozze che li portano a prendere il posto dei loro ascendenti, che cedono loro il trono della vita. In mille modi, nelle opere d'arte e nei testi filosofici, religiosi o laici, questo logos della vita, che ha il suo demone nell'Amore/Eros, è stato raccontato, senza superare per la tensione verso la verità e la tolleranza nei confronti di ciò che sfugge alla presa del sapere umano del discorso di Diotima, la sola maestra di Socrate e di Platone. - Il
congiungimento dell'uomo e della donna, in realtà, è
un dare alla luce. Questo atto, orbene, è divino, e
nell'essere vivente che è mortale vi è questo di
immortale, il concepimento e la procreazione. … E
perché mai proprio la procreazione? Perché la
procreazione è ciò che di eterno e di immortale può
toccare a un mortale. Da quanto si è ammesso,
peraltro, risulta necessario che, assieme al bene, si
desideri l'immortalità, se è vero che l'amore tende a
possedere eternamente il bene. In base a questo
discorso è dunque necessario che l'amore tenda altresì
all'immortalità. (Simposio,
74-75) - Quale
credi, o Socrate, la causa di questo amore e di questa
brama? O non ti accorgi in quale disposizione
mirabilmente strana si trovino tutti gli animali, ogni
volta che li coglie il desiderio di procreare, sia
quelli che vivono sulla terra sia quelli che volano,
tutti ammalati e amorosamente disposti, per ciò che si
riferisce, anzitutto, all'accoppiarsi gli uni con gli
altri, e, in seguito, all'allevamento della prole; e
come i più deboli siano pronti, per i loro nati, a
combattere contro i più forti, e a morire per loro,
sia subendo essi stessi le torture della fame al fine
di tirar su i nati, sia facendo ogni altra cosa?
Quanto agli uomini invero - disse - si potrebbe
credere che facessero ciò per riflessione: ma gli
animali, quale causa c'è che siano così amorosamente
disposti? |
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6.
Fabulando racconta
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Trovare in rete una fiaba è facilissimo: si apre un motore di ricerca, si scrive il titolo, diciamo Cenerentola, e si ottiene un elenco di centinaia di migliaia di link. Non li esploreremo mai tutti, ci fermeremo alle prime tre-quattro pagine. Nelle quali troveremo l’indicazione di alcuni siti che contengono una versione famosa della fiaba, quasi sempre semplificata, magari corredata da disegni o animazioni patinate. A seguire troveremo poi il rimando ai film, di animazione e live action, e agli innumerevoli spettacoli che si stanno allestendo al momento della ricerca. Scopriremo (ma probabilmente già lo sapevamo) che Rossini ha composto un’opera lirica che narra la storia di Cenerentola e che ancora oggi è rappresentata ad ogni stagione, ma niente sapremo de La Gatta Cennerentola, la prima e inaspettata versione della fiaba pubblicata a Napoli nel XVII secolo. Che dire poi delle fiabe che non hanno ricevuto l'attenzione della Disney? Cecino, Rana rana, Giovannin senza paura, La ricotta bianca, L’Augel Belverde … le fiabe cioè appartenenti al patrimonio narrativo tradizionale italiano ed europeo che non appaiono nelle prime pagine di una ricerca in rete, a meno che non si faccia una ricerca specifica, che ha come presupposto il fatto che già sappiamo dell’esistenza di quelle fiabe. Eppure anche queste storie si possono leggere nel web, liberamente e gratuitamente. Ma come accedervi se non si è uno specialista? Ecco, uno dei principi guida dell’intero progetto di Fabulando, e anche della scelta degli strumenti narrativi, è quello di facilitare l’accesso alle innumerevoli versioni delle fiabe, antiche, dialettali, in lingua, che, presenti in internet, rimangono però per la maggior parte sconosciute. L’altro principio guida è rappresentato dalla convinzione che il fascino che si prova sfogliando un libro, pagina dopo pagina, sorpresa dopo sorpresa, si possa ritrovare anche utilizzando i mezzi digitali. (CC) |
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6.1
E-book |
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Ognuna della sessantasei favole presenti in Fabulando è narrata in un e-book, un libro digitale, che ha però i colori e i suoni di un libro di carta, e i più bei disegni dei grandi maestri dell’Ottocento e del primo Novecento, dai quali sono tratti anche i capilettera da noi appositamente realizzati. L’e-book contiene la versione della fiaba in lingua originale e la traduzione nelle due lingue contemporanee che abbiamo scelto: l’italiano, che è la nostra lingua materna, e l’inglese, ormai da tempo la lingua internazionale per eccellenza. Le versioni in lingua originale sono tratte dalle raccolte più importanti, disponibili in rete: le fiabe nei dialetti d'Italia da quelle ottocentesche, le antiche fiabe italiane da quelle tre-cinque-seicentesche, le fiabe più diffuse in Europa dalle raccolte di Charles Perrault e dei Fratelli Grimm. Ciascuno di questi tipi forma una collana, identificata nella copertina degli e-book da questi titoli: 1. Il popolo delle meraviglie. Fiabe dialettali italiane e alloglotte; 2. Le prime fiabe del mondo. Pubblicate in Italia fra il XIV e il XVII secolo; 3. Europa in fabula. Le fiabe più amate del mondo. 4. Racconti migranti. Storie senza confine. Ogni e-book è corredato di una pagina finale nella quale sono indicate le fonti delle versioni in lingua originale, delle traduzioni, delle illustrazioni e dei capilettera; da questa pagina si accede alla bibliografia generale di Fabulando (Bibliografia delle fonti) dove si trovano i link alle edizioni dei testi disponibili nel web. Infine si precisa che si sono trascritte le fiabe dialettali italiane e quelle in lingua inglese, tedesca o francese dai testi citati (sia nella pagina Fonti/Sources che si trova al termine di ogni e-book, sia nel Fairybiblio, bibliografia di Fabulando) rispettando i segni di interpunzione di ogni edizione. La loro varietà è un aspetto della varietà del linguaggio verbale, narrativo e simbolico delle fiabe. (CC) |
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6.2
E-kamishibai |
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Cosa significa e-kamishibai? È una parola che abbiamo costruito su modello della parola e-book: come e-book significa ‘libro digitale’, così e-kamishibai significa ‘kamishibai digitale’. E cos’è un kamishibai? Il termine è giapponese e significa ‘dramma di carta’. Si diffuse moltissimo in Giappone fra le due Guerre, quando i kamishibaya, cioè i cantastorie, giravano per le strade delle città con la bicicletta, sulla quale era montato un teatrino di legno: nel teatrino il kamishibaya faceva scorrere le immagini della storia che raccontava. Tutti potevano ascoltare le storie, ma le prime file erano riservate ai bambini che avevano comprato i dolciumi che il kamishibaya vendeva prima del suo spettacolo. Nel teatrino scorrevano illustrazioni dai colori vivaci e di grande impatto, che avevano lo scopo di impressionare il pubblico e costituivano una vera e propria narrazione per immagini: il cantastorie la animava con la sua voce e la sua mimica. Il kamishibai era così popolare che la tv, all’inizio, fu chiamata denki kamishibai, cioè ‘kamishibai elettrico’. In Fabulando molte illustrazioni utilizzate sono tratte dall’opera di Walter Crane (1845-1915) che illustrò alcune delle favole più famose, realizzando delle vere e proprie narrazioni per immagini. Seguendo il modello del kamishibai giapponese, e adattandolo al mezzo digitale, abbiamo elaborato queste illustrazioni per costruire dei set di immagini che ciascuno può far scorrere, con un touch o con click, narrando autonomamente la fiaba come un vero e proprio kamishibaya. Le fiabe per le quali è disponibili l’e-kamishibai sono: La bella addormentata nel bosco, La Bella e la Bestia, Biancaneve e i sette nani, La Gatta Cenerentola (nella versione delle Autrici di Fabulando), Cappuccetto rosso, La Gatta con gli stivali, Il Gatto con gli stivali, Il Principe Ranocchio e Jack e la pianta di fagioli (CC) |
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6.3 Fiabe per YouTube |
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6.4
Animazioni |
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La Gatta con gli stivali e Il Principe Ranocchio sono raccontate anche attraverso un’animazione realizzata a partire dalle illustrazioni di Walter Crane che con la loro bellezza ed espressività, la cura dei particolari e l’intelligenza della fiaba ci hanno affascinate. Le immagini originali non sono molte: cinque per Il Principe Ranocchio, sette per La Gatta con gli stivali. Da queste, con una elaborazione guidata dal rispetto per il lavoro di Crane, smontando e rimontando le immagini, abbiamo costruito una sequenza animata che copre l’intero arco narrativo di ciascuna delle due fiabe. Abbiamo aggiunto alcune didascalie, necessarie alla comprensione della fiaba, lasciandoci guidare dalla delicatezza, dall’ironia e dal ritmo tipici delle narrazioni popolari; e così, le didascalie, le abbiamo scritte in rima. Abbiamo realizzato in proprio anche il carattere tipografico con il quale si presentano, ispirandoci alle didascalie di uno dei film muti più famosi, Il ladro di Bagdad (US, 1924). Le animazioni sono completate da musiche originali di Federico Riondino che ha suonato variazioni sulle melodie di O che bel castello (antica filastrocca musicale), I’ te vurria vasà (Eduardo di Capua, 1900), Te voglio bene assaje (1839 c.a.), insieme a Ugo Nativi e Lorenzo Nardi. |
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Un’ultima annotazione che riguarda La Gatta con gli stivali: Walter Crane ha illustrato la versione più famosa di questa fiaba, cioè Il Gatto con gli stivali di Charles Perrault. Non potevamo esimerci dall’inserire questa fortunatissima versione fra le fiabe europee di Fabulando, ma abbiamo anche scelto di rielaborare la prima versione della Gatta con gli stivali pubblicata nel mondo, contenuta nella raccolta cinquecentesca Le piacevoli notti di Giovan Francesco Straparola, nella quale l’animale che aiuta il protagonista è una gatta e non un gatto (La gatta, nel sito Adalinda Gasparini, Psicoanalisi e favole). Sono presenti quindi in Fabulando sia La Gatta con gli stivali che Il Gatto con gli stivali, per le quali abbiamo utilizzato le stesse illustrazioni. Ma è a partire dalla prima, la meno conosciuta, che abbiamo voluto realizzare l’animazione. (CC) | |||||||||||||||||
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6.5.
App-tale Gatta Cenerentola |
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La versione di Cenerentola narrata dalle Autrici occupa un posto speciale all’interno di Fabulando. Dalla carta di questa fiaba, infatti, oltre che alle altre forme narrative, si accede anche a un’app per i-pad realizzata nel 2013 dalle stesse autrici di Fabulando. Questa nuova versione della fiaba è rinarrata a partire dalle illustrazioni di Arthur Rackham, rielaborate e moltiplicate, e dalle versioni di Giambattista Basile (Napoli, 1634-36), Charles Perrault (Parigi, 1697), Walt Disney (Burbank, California,1950) e Vittorio Imbriani (Firenze, 1877). È un’app interamente dedicata a Cenerentola: la fiaba è raccontata attraverso la parola scritta, le animazioni presenti in ogni pagina, la voce narrante, gli effetti sonori e la musica. L’app è disponibile gratuitamente non solo in italiano e in inglese, ma anche in greco moderno e in latino, omaggio questo alla cultura classica, che ha mantenuto nei millenni il suo portato generativo nel pensiero e nelle narrazioni, anche contemporanee. (Per scaricare l'app della Gatta Cenerentola, vai alla Carta della fiaba; vedi anche altre notizie nel sito di Fairitaly, Associazione ONLUS). (CC) |
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6.6
Storia della favola |
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In due brevi e-book la voce del Ranocchio (Il Principe Ranocchio) e quella della Gatta (La Gatta con gli stivali) raccontano ciascuno i punti salienti della storia della propria favola. Ogni fiaba ha una storia interessante nella quale si possono evidenziare i legami con le altre fiabe e con le altre forme della cultura, come ad esempio la letteratura e il cinema. La scelta di concentrarsi su queste due fiabe è in parte dovuta ai loro grandi narratori (rispettivamente i Grimm e Perrault), in parte al fascino suscitato proprio dalla storia delle loro storie. Da una parte infatti ne La Gatta con gli stivali suscita curiosità il passaggio di genere dell’animale che, in poco meno di un secolo e mezzo, da gatta lasciata da una madre in eredità al figlio diventa un gatto lasciato in eredità da un padre ed è stimolo di riflessione il fatto che poi quest’ultima versione si sia stabilizzata, tanto che oggi è l’unica che quasi tutti conoscono. Dall’altra parte Il Principe Ranocchio rivela, nella versione raccontata dai fratelli Grimm, dei legami profondi con la letteratura medievale. Con l’obiettivo di favorire una più ampia diffusione di questioni che normalmente rimangono chiuse in ambito specialistico, si è scelto di utilizzare un espediente narrativo in questi due e-book: sono i due animali delle due fiabe che parlano in prima persona. Questo ha consentito un registro linguistico maggiormente colloquiale e una sintesi che, se impedisce di approfondire ogni punto, mostra però i fatti salienti nel loro complesso. (CC)
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8.
Sessantasette fiabe |
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Introduzione |
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La scelta delle sessantasei fiabe presenti in Fabulando si basa su due criteri che nella nostra ricerca si sono sempre intrecciati: il piacere della narrazione densa di significato e il rigore filologico. La ricerca delle versioni più antiche infatti non è motivata da un desiderio di correttezza meramente inteso. Così, abbiamo cercato la prima versione di Biancaneve pubblicata dai Grimm (di cui non abbiamo trovato una traduzione italiana) non perché la intendiamo come “la versione più giusta” in quanto la prima, ma perché, sebbene poco conosciuta, è pregnante e mostra con più evidenza di altre la questione che è al cuore della fiaba: quell’articolazione del rapporto madre-figlia che abbiamo chiamato Ingiunzione del Patibolo della condanna a morte. Scegliere le fiabe ha significato non solo classificarle secondo le dieci ingiunzioni, ma anche confrontarsi con l’immensità del patrimonio narrativo, quanto meno europeo. Su quali fiabe volevamo lavorare? Senza dubbio su Cenerentola, la fiaba che accompagna la nostra ricerca fin dall’inizio. E poi? Su quelle più conosciute, ci siamo dette. E da queste siamo risalite alle prime pubblicate al mondo, che sono italiane, e alle innumerevoli versioni narrate nei dialetti dell’Italia. Sono nate così le tre collane di Fabulando: ogni fiaba, pur trovandosi aggregata con le altre sulla base delle ingiunzioni e dei quadranti, appartiene anche ad una delle tre collane, che rappresentano una sorta di filo che, con discrezione, lega le storie in un altro modo, a ricordare che si può guardare alle fiabe sotto molteplici punti di vista, ciascuno dei quali ha una sua validità e nessuno dei quali le può racchiudere. 1. Il popolo delle meraviglie. Fiabe italiane dialettali e alloglotte Una prima collana si intitola Il popolo delle meraviglie. Fiabe italiane dialettali e alloglotte nella quale sono rappresentati vari dialetti d’Italia e tre isole linguistiche alloglotte, dove cioè si parla un dialetto diverso da quello delle zone circostanti: è il caso del catalano di Alghero (Sardegna), del guardiolo, cioè la varietà dell’occitano parlata a Guardia Piemontese (CS) e del tabarchino, che deve il suo nome alla città di Tabarca in Algeria dove si era stabilita originariamente una colonia ligure trasferitasi, in seguito, in una piccola area della Sardegna sud-occidentale. Fanno parte di questa collana: Belindu il mostro nel catalano di Alghero, Cecino in tabarchino (Sardegna), Così finì il tonto in umbro-laziale, Fiore e Gambodifiore in abruzzese - marchigiano inferiore, Il Gatto Mammone in montalese (Toscana), Il testamento d'una fata in ciociaro, Indovina indovinatore in guardiolo (Calabria), La bambola smarrita in piemontese, La Regina Marmotta in montalese (Toscana), La ricotta bianca in calabrese, La scatola di cristallo in senese (Toscana), Meni Fari in friulano, Rana rana in romanesco, Sfurtuna in siciliano e Giovannin senza paura in italiano. Nel realizzare questa collana volevamo non tanto mostrare esempi di fiabe tradizionali di alcune zone d’Italia, ma affiancare la narrazione in dialetto con quella in lingua, in modo che ciascuno potesse gustare la vivacità, ma anche la tenerezza tipiche della narrazione popolare italiana. E per chi non volesse leggere la versione dialettale, la traduzione in lingua, a cura di Adalinda Gasparini, si basa sull’intento di rendere il più possibile quella vivacità e quella tenerezza. Ci sono alcune eccezioni alla formula del testo a fronte. Abbiamo ritenuto che Il Gatto Mammone, La scatola di cristallo (entrambe in dialetti toscani) e Rana rana (in romanesco) fossero comprensibili senza la traduzione in lingua italiana, mentre abbiamo inserito a fianco della versione in toscano de La Regina Marmotta la versione che ne dà Italo Calvino che mostra con molta chiarezza l’operazione linguistica e stilistica compiuta dallo studioso nella sua pubblicazione Fiabe italiane (Einaudi, 1956). Infine abbiamo incluso in questa collana Giovannin senza paura nella versione italiana di Calvino anche per metterla a confronto con un altro Giovannino, quello che va in cerca della pelle d’oca (presente in Fabulando nella versione dei Grimm): entrambi incapaci di provare paura, le loro storie hanno uno sviluppo narrativo e un finale completamente diverso. Non a caso in Fabulando condividono il quadrante (Nord-Est) ma non l’ingiunzione: Bivio del compito possibile per il primo, Bosco dell’esilio per il secondo. E, rimaste colpite dal fatto che Calvino non abbia problematizzato la differenza fra le due fiabe, parlando di «tranquilla fermezza» nei confronti del soprannaturale, senza mettere l’atteggiamento dell’attante protagonista in rapporto con la fine della fiaba, abbiamo voluto inserire proprio la sua versione che è in italiano e non in dialetto, ma che dalle versioni dialettali attinge in una narrazione nella quale la mano di Calvino, per sua stessa ammissione, è presente più che nelle altre fiabe della sua raccolta. Altre traduzioni di altre fiabe dialettali e alloglotte dell’Italia sono disponibili nel sito Favole e Psicanalisi di Adalinda Gasparini. Una bibliografia ragionata delle fonti delle Fiabe italiane Italo Calvino, corredata di notizie biografiche dei raccoglitori, è disponibile nel sito Percorsi di pensiero di Claudia Chellini. 2. Europa in fabula. Le fiabe più amate del mondo. Le fiabe più famose, conosciute e rappresentate sono riunite nella collana Europa in fabula. Le fiabe più amate del mondo. Anche in questa collana la scelta della versione ha seguito un criterio filologico e di senso insieme: stabilito che le fiabe oggi “più amate” sono quelle più presenti nelle narrazioni contemporanee, come il cinema e la tv, abbiamo deciso di inserire in Fabulando le redazioni dei grandi narratori europei, Charles Perrault e i fratelli Grimm in primis, in quanto storie intense, che sono state poi spesso edulcorate con l’andare dei secoli. Abbiamo quindi raccolto in questa collana Biancaneve e i sette nani nella prima versione pubblicata dai fratelli Grimm nel 1812 nella quale la strega è la madre e non la matrigna di Biancaneve; Cappuccetto rosso che in Perrault non ha affatto un lieto fine; Giovannino e la pelle d'oca, Hänsel e Gretel e Il Principe Ranocchio dei fratelli Grimm; La Bella addormentata nella forma completa narrata da Charles Perrault che, seguendo Sole, Luna e Italia di Giambattista Basile, non termina la storia con il ritrovamento della bella da parte del principe, ma prosegue narrando l’altra metà della fiaba; Il Gatto con gli stivali anch’esso di Perrault; La Bella e la Bestia di Madame de Beaumont. Abbiamo poi deciso di inserire in questa collana due fiabe conosciutissime che abbiamo voluto rinarrare a partire dalla più antiche versioni: La Gatta Cenerentola e La Gatta con gli stivali. La prima riprende la storia raccontata nell’omonima app per i-pad da noi realizzata a partire dalle versioni di Giambattista Basile (la più antica pubblicata al mondo e presente in Fabulando nella collana dedicata alle antiche fiabe italiane), di Perrault, di Walt Disney, dalle versioni popolari, come La Cenerentola fiorentina (Imbriani, 1877) e dalla storia illustrata da Arthur Rackham. La seconda invece combina l’antica versione della storia, raccontata da Giovan Francesco Straparola ne Le piacevoli notti, nella quale Costantino Fortunato riceve in eredità dalla madre una gatta che, grazie alla sua astuzia, lo rende bello e ricco, la più famosa versione del Gatto con gli stivali di Perrault (anch’essa, come detto poco sopra, presente in Fabulando) e la magnifica narrazione per immagini realizzata da Walter Crane. E infine, per l'e-book Giovannino e la Pelle d'oca abbiamo scelto la versione in lingua originale dei fratelli Grimm ponendovi a fronte la traduzione italiana di Antonio Gramsci, dai Quaderni del carcere (1929-1932). 3. Le prime fiabe del mondo. Pubblicate in Italia fra il XVI e il XVII secolo In questa terza collana abbiamo raccolto qui le prime fiabe pubblicate al mondo, traendole da Lo cunto de li cunti (1634-36) di Giambattista Basile nel quale si trovano alcune fiabe molto famose (oltre a Cenerentola, ricordiamo Prezzemolina, oggi più conosciuta con il nome di Rapunzel, che le hanno dato i fratelli Grimm) e altre fiabe meno note ma che sono entrate a far parte del patrimonio narrativo nei vari dialetti d’Italia e nelle lingue d’Europa. In Fabulando sono presenti: I sette piccioncini, I tre re animali, Il corvo, La cerva fatata, La fiaba dell'orco, La Gatta Cenerentola, Lo scarafaggio, il topo e il grillo, Panepinto, Pietropazzo, Prezzemolina, Violetta. Basile racconta nella sua opera anche una versione (la seconda pubblicata dopo Straparola) del Gatto con gli stivali, che in realtà anche qui è una gatta; ma, essendo la storia già molto presente in Fabulando, abbiamo circoscritto l’indicazione di questa fiaba a quanto ne dice la Gatta nella sua storia della favola. (Vedi anche: Le prime fiabe del mondo. Basile e Straparola nella traduzione di Adalinda Gasparini,1996 e 1999). Poco meno di cento anni prima del Cunto, Giovan Francesco Straparola dava alle stampe Le piacevoli notti (1550-1553), raccolta di novelle nella quale sono inserite alcune fiabe, anch’esse divenute famose in tutta Europa. In questa collana di Fabulando ne abbiamo pubblicate tre: Bambola Popoavola, versione antica dell’Oca d’oro dei fratelli Grimm, L'Augel Belverde, antica versione di Principessa Bella Stella, e Re Porco, dalla quale è stata tratta Il Principe Cinghiale di Madame d'Aulnoy. 4. Racconti migranti. Storie senza confini. Abbiamo incluso in questa sezione L’aquila d’oro, novella del XIV secolo, parte integrante del Pecorone di Ser Giovanni fiorentino, la quale, pur non essendo propriamente una fiaba, presenta un andamento narrativo e interessanti motivi di tipo fiabesco. C'è un'altra ragione per il quale abbiamo scelto di includere questa storia. Ne L'Aquila d'oro si racconta di un'antica battaglia nella quale sono schierati gli eserciti di tutti i popoli europei, ciascuno con la propria fierezza e i propri stendardi, mentre e’ razzi del sole cominciarono a percuotere in quelle armi rilucenti, e ’l vento che facea isventolare i pennoni e le bandiere, e l’anitrire che faceano i cavalli, e ’l grandissimo romore che faceano i pifferi e trombetti dell’una parte e dell’altra, parea che ’l mondo balenasse. I due schieramenti stanno combattendo ferocemente quando il Papa li obbliga a far pace sotto la minaccia della scomunica. Alla fine della storia, il figlio e la figlia dell'Imperatore di Germania sposano la figlia e il figlio del Re d'Aragona e vivono per sempre felici e contenti. Ci piace pensare che l'Europa di oggi possa essere consapevole e orgogliosa delle sue tante bandiere come delle sue tante storie. Le fiabe e i racconti si formano e si trasformano nel continuo corpo a corpo fra popoli e culture, sia quello violento delle guerre, sia quello degli scambi in tempo di pace. Chi aggiunga al patrimonio narrativo di una lingua o di una cultura un corpus di favole, o una singola storia, non frequenta di solito gli studi sulle fiabe. A partire dal XIX secolo molti studiosi hanno dedicato il loro lavoro alla descrizioni delle loro migrazioni, fra Oriente e Occidente come fra narratori colti e popolari. Questa raccolta di Fabulando comprende storie molto famose e storie rimaste quasi sconosciute, per mostrare la bellezza che passa dalle une alle altre. Pensiamo, ad esempio, alla fiaba dell'Augel Belverde, che, pubblicata a Venezia nel XVI secolo, viene narrata a Parigi da un viaggiatore siriano ad Antoine Galland, il primo traduttore delle Mille e una notte, che la pubblica a Parigi all'inizio del XVIII secolo come traduzione di un racconto arabo alla fine della raccolta. Anche quando sono molto lontane nello spazio e nel tempo possono mostrare stupefacenti caratteri comuni. Le fiabe non dipendono dalle religioni, dalle nazioni o dalle ideologie diverse, e possono facilmente vestirsi con gli abiti e le usanze di ogni popolo e parlare tutte le lingue e tutti i dialetti. Ci piacerebbe che questi Racconti migranti potessero essere accolti come un piccolo antidoto a qualunque forma di razzismo. (CC) |
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Il Gatto
Mammone Vetta del compito impossibile Quadrante sud-ovest |
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Il nucleo significante di questa fiaba è nel triplice tentativo di danneggiare e distruggere la protagonista, che ha come risultato la crescita dell'attante protagonista: - la madre e la sorella brutta la vessano in ogni modo per imbruttirla: la Bella Caterina diventa sempre più bella; - la mandano dalle fate perché la graffino irreparabilmente: lei ottiene ricchi doni e una stella in fronte; - la chiudono in un tino sostituendole la sorella brutta; lei sposa il figlio del re che elimina definitivamente le rivali. Come un sogno è comprensibile come storia intrapsichica del sognatore, così una fiaba è interpretabile come specchio della complessa e decisiva vicissitudine di un soggetto, dal punto di vista della sua realtà psichica, anche se i personaggi sono presentati come esterni: si ha così un racconto che tocca le corde più intime di chi narra e di chi ascolta, senza ferire. In questa fiaba il padre manca, non è nemmeno nominato, mentre la madre, che ha un alter ego nella figlia brutta e cattiva come lei, non ha limiti nel vessare Caterina: la protagonista buona e bella deve sottostare alla loro volontà, come Cenerentola con la matrigna. Quando è costretta a lasciare la casa per avventurarsi nel bosco fino alla dimora delle fate, Caterina ha paura e piange: nelle fate potrebbe incontrare nemiche anche peggiori alla madre e alla sorella. Il vissuto di una figura materna che intralcia ingiustamente la propria crescita, fino a impedirla, riguarda tutti, come la ricerca di una figura materna illimitatamente accogliente: le donne, una volta sposate e con figli, spesso vedono la prima nella suocera, la seconda nella madre. L’incontro fiabesco con fate pericolose o streghe che donano oggetti magici pone il soggetto in contatto con la sua percezione ambivalente della figura materna. Lungo la via un vecchio male in arnese chiede qualcosa a Caterina, che si ferma e accetta di prendersi cura della sua testa che prude: passa un po’ di tempo a ‘guardargli i capelli’, ma non lo umilia, e gli dice che ha trovato oro e perle, non i più probabili pidocchi. Il vecchio è una figura paterna, che alle soglie del bosco, regno della natura e quindi della madre, le dà le istruzioni indispensabili per incontrare le fate: aiutare i gattini, chiedere il minimo quando viene offerto anche il massimo, e badare a non danneggiare la scala di accesso alle stanze delle fate. Le istruzioni del vecchio le insegnano a placare la collera materna esprimendo umiltà e capacità di portare aiuto. Le fate e il Gatto Mammone sono ambivalenti, come le figure magiche della tradizione popolare, ostili o propizie a seconda di come l'attante si rivolge a loro. Una delle scene più belle della fiaba è quella dei gattini che vanno a dire al Gatto Mammone come li ha aiutati Caterina. Fare le faccende significa prendersi cura dei corpi, pulendo la casa e preparando il suo nutrimento: non si tratta letteralmente dei lavori di casa, ma della capacità femminile di rendere e mantenere abitabile la casa, anzitutto la propria casa-corpo, dove risiede la fecondità, fisica e psichica. Prerogativa del femminile come funzione ricettiva, non passiva, è allestire e curare lo spazio dove gli esseri viventi tornano per nutrirsi, lavarsi, riposare, rigenerarsi. La sorella brutta fallisce lo stesso percorso, sia perché non avendo paura né sofferenza sottovaluta la prova e non pensa di aver bisogno dell’aiuto di chi incontra per via, sia perché copia il movimento dell’altra, non avendo un desiderio proprio. Caterina dopo aver incontrato le fate è bellissima e splendente: è sbocciata, e la sua fioritura viene vista dal figlio del re, che la chiede in sposa. A questo punto la madre e la sorella invidiose vogliono rubarle quel che è suo, eliminandola per sempre, e il principe, il maschile, non è in grado di scoprire l’inganno chiuso nelle relazioni femminili. Ma i gattini beneficati, legati alle fate e al Mammone, cantano miagolando che la sposa non è quella giusta. La stessa cosa accade in Aschenputtel, la Cenerentola dei Grimm, quando le colombine avvertono il principe che sta portando con sé la sposa sbagliata. Il Gatto Mammone ha genere maschile e ricorda nel nome la mamma, ma potrebbe rimandare anche a Mammona, nome del diavolo, o alla parola araba maimon, che significa fortunato, propizio. Nel luogo della potenza arcaica del femminile Caterina ha saputo come fare, seguendo i consigli paterni del vecchio di cui si è presa cura: i gattini che ha aiutato nelle faccende la salvano dalla prigione. Queste figure maschili, un vecchio pidocchioso e il Mammone col suo seguito di gatti, possono rappresentare l'aiuto che viene da un mondo diverso alla fanciulla il cui padre è assente. Il principe porge ascolto alla piccola voce dei gatti come Caterina aveva ascoltato il vecchietto lungo la via, e con la sua autorità dà alle rivali quel che avevano destinato a Caterina: non si tratta di una morte in senso letterale, ma dell’eliminazione definitiva delle parti invidiose e distruttive. Nella vita quotidiana, la tenerezza che si dà e si riceve nel rapporto con un animale domestico può aiutare a superare un difficoltà: è una creatura vicina alla natura, alla madre terra, attraverso la quale ci si può prendere cura di una parte che si è ferita nella relazione con la madre, che non sappiamo medicare in altro modo. In attesa che il dolore esca dal silenzio, e che la parte vicina alla natura madre trovi parola, la voce di un micio può lenire la pena: mau, maurino... (AG 2016) |
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Indovina
indovinatore Vetta del compito impossibile Quadrante nord-ovest |
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La storia di Pero, figlia di Micone, che di nascosto nutre suo padre, condannato a morire di fame, citata come Carità romana, racconta che un carceriere la scopre, ma le autorità, commosse dal suo amore filiale, anziché punirla le donano la libertà del padre. La figlia che allatta il padre è dipinta in un affresco pompeiano (Pompei, Micon e Pero), e il soggetto è stato dipinto molte volte, anche da pittori come Peter Paul Rubens e Caravaggio, che ritrae la figlia che allatta il padre nelle Opere di Misericordia, facendo loro rappresentare due delle Sette opere di misericordia: Dar da mangiare agli affamati e Visitare i carcerati). L’attante protagonista di questa fiaba, come l’antica Pero, nutre col suo seno il padre, e come lei ottiene la sua liberazione. Mentre la storia latina pone l'accento sulla caritas filiale, quello della storia della minoranza occitana calabrese apre il motivo dell’intimo legame fra l’enigma, la situazione edipica e l’irriducibile ambiguità del linguaggio, che in questo caso inverte chi allatta (madre/figlia) e chi succhia il seno (figlio/padre). Osserviamo che Edipo, rispondendo alla sfinge, risolve un enigma che riguarda l’alternanza fra le generazioni: l’uomo è la semplice risposta, ma l’uomo non è semplice nella successione delle diverse età, e l’eroe tragico dovrà impararlo. In questo motivo, che abbiamo posto al cuore di Fabulando, qualcosa di molto semplice e qualcosa di tragicamente complesso si trasformano l’uno nell’altro, con un enigma e una risposta che articolano la nascita e la crescita con la morte e l’invecchiamento, rendendo possibile o impossibile la trasmissione dell’eredità. Il Marchese solutore di enigmi di questa fiaba crede nella potenza delle sue facoltà razionali, ma cozza contro l’ambiguità del linguaggio per la prima volta quando si trova di fronte la protagonista femminile.
Dopo questa prima sconfitta, il Marchese si trova di fronte un prigioniero che gli pone un nuovo enigma, la cui formula, con qualche variazione, si ritrova in numerose fiabe popolari:
Il Marchese prende tempo per trovare la soluzione, ma per la seconda volta fallisce. Allora libera il prigioniero e revoca il suo decreto, secondo il quale si impegnava a rendere la libertà a un prigioniero ogni volta che non fosse riuscito a risolvere un indovinello. Il detentore del potere paga un prezzo meno alto di Edipo per imparare questa lezione sui limiti delle facoltà razionali. Vogliamo ricordare un’altra storia, nella quale un re padre si unisce con la figlia, e per allontanare I pretendenti di lei pone loro un enigma: se non troveranno la risposta, saranno messi a morte. Così racconta il romanzo latino Historia Apollonii Regis Tyri (V secolo), la cui traduzione in inglese arcaico, Apollonius of Tyre (XI secolo) viene citata come il primo romanzo inglese (vedi anche: Historia Apollonii Regis Tyri, nel sito Adalinda Gasparini, Psicoanalisi e favole). Dal romanzo di Apollonio Shakespeare trasse il soggetto di Pericle principe di Tiro, formulando così l’enigma: Non sono una vipera, eppure mi nutro della carne della madre che mi ha generato. Cercai uno sposo, e in questo lavoro Trovai quel favore in un padre. Egli è padre, figlio, e dolce sposo; Gli sono madre, figlia, e pure bambina. Come è possibile, per due sole persone? Ora rispondi, se non vuoi morire. (Atto I, Scena 1, vv. 64-71) Semplice in apparenza, questa storia ci invita a riflettere su un motivo che affonda le sue radici nel mondo classico e nella letteratura europea, sopravvissuto in una piccola comunità alloglotta la cui storia è allo stesso tempo affascinante, avventurosa e tragica. Nel XIII secolo una comunità occitana fuggì dal Piemonte al tempo delle persecuzioni religiose, andando a popolare alcuni villaggi della Calabria: il piccolo paese nel quale questa storia è stata raccolta si chiama Guardia Piemontese, e in passato si è chiamato anche La Gardia, in occitano, e Guardia dei Valdi. Questi valdesi vissero in pace seguendo la loro fede, accanto alle comunità cattoliche, fino a quando aderirono alla Riforma protestante, come i Valdesi del Piemonte. Nel 1561 un cardinale, che sarebbe salito al soglio pontificio col nome di Pio V, promosse una crociata contro i valdesi, e li sterminò tutti, senza far eccezione per le donne e i bambini. I pochi sopravvissuti furono costretti a convertirsi alla religione cattolica, e posti sotto la stretta sorveglianza dei frati domenicani. Nelle porte delle loro case c’erano spioncini apribili dall’esterno, attraverso i quali questi guardiani potevano in qualunque momento controllare che non celebrassero i loro riti. Questa comunità di lingua occitana della Calabria fu dimenticata per secoli, anche dalle altre comunità valdesi italiane, fino alla fine dell’Ottocento, quando un Valdese scoprì che esistevano, sentendoli parlare un dialetto occitanico, per quanto fortemente influenzato dal calabrese. Alla fine del secolo scorso si contavano poche centinaia di parlanti. La politica culturale dello stato italiano, non solo durante il fascismo, ha teso ad eliminare il dialetto in favore della lingua nazionale, fino agli ultimi decenni, nei quali si può osservare una nuova consapevolezza del valore delle lingue locali, dialettali e alloglotte, alla quale seguono sforzi meritori per mantenerla in vita. E infine, questa storia della piccola comunità Valdese della Calabria non ricorda l’incredibile oppressione di certe fiabe? Se questa storia venisse raccontata come una fiaba, le sue ingiunzioni potrebbero essere la Torre della segregazione, ma anche il Veliero della maledizione e infine il Patibolo della condanna a morte. (AG) |
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Rana
rana Vetta del compito impossibile Quadrante nord-est |
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I tre figli del re vogliono sposarsi e il padre consegna loro tre palle d’oro: dovranno lanciarle e dove si fermeranno là saranno le loro spose. Nella versione narrata dai Fratelli Grimm, Le tre piume, la direzione che i fratelli dovranno prendere sarà quella di tre piume che il re lancia in aria. In una fiaba russa il principe Ivan, alla ricerca di Campestre Bianco, si trova in un bosco e chiede a un vecchio, che chiama a raccolta tutti gli uccelli. Ma nemmeno loro sanno dove si trovi. Allora il vecchio dice a Ivan: “To’, prendi questo gomitolino, e gettalo avanti a te; dove il gomitolo rotolerà, tu guida il cavallo” (Afanasjev, p. 208). Metodi singolari, a prima vista assurdi, che nelle fiabe conducono alla meta. Suggeriamo di leggervi una verità che ciascuno sperimenta: seguire un desiderio significa cercare di raggiungere una meta impossibile, e procedere anche quando la ragione e il buon senso ci farebbero desistere. Non si tratta di cercare una magia, ma di riconoscere che la geometria della vita è tutt’altro che semplice, e in certi casi il senso si manifesta come per una grazia improvvisa, come risolvere un problema proprio quando la tentazione di rinunciare a trovare una soluzione si fa più forte. Come si affronta il compito di trovare una sposa? Il metodo del re non è molto pratico, ma nessuno è in grado di rispondere in maniera soddisfacente. In questo senso intendiamo il metodo aleatorio della nostra fiaba come espressione dell’imprevedibilità che ogni matrimonio concretamente implica. La fiaba, dopo aver presentato due soluzioni soddisfacenti per i due fratelli maggiori, sembra sottolineare l’assurdità del metodo: chi può chiamare Nicolino nel fosso dove è caduta la sua palla d’oro? Nella fiaba che abbiamo citato, delle tre piume, i primi due fratelli seguono le direzioni indicate dalle due piume, mentre la terza piuma cade subito per terra e il figlio minore non può fare altro che sedersi senza sapere che fare. Ma poi vede l’anello di una botola, scende in un sotterraneo, e trova una famiglia di ranocchie che prova dopo prova lo porterà al lieto fine. Nicolino chiama una rana, e una rana gli risponde, comprende la sua delusione ma è certa che un giorno l’amerà. Come i fratelli ha trovato una sposa, e il re padre a questo punto presenta il tema della successione: salirà al trono il figlio la cui sposa mostrerà di essere la migliore. La ranocchia, come il Principe Ranocchio di un’altra delle fiabe di questa raccolta, da una parte è umile, vive in un fosso o in una fontana, ma è fin dalla sua apparizione una creatura magica: è dotata di parola e prova dopo prova riempirà di meraviglia i principi e il re. Nelle fiabe sono sempre la figlia o il figlio minore ad assolvere il compito impossibile, sono disprezzati o perseguitati per la loro bellezza, costretti da un incantesimo che è avvenuto prima del racconto nel quale lo conosciamo, in ogni caso invitano chi legge o ascolta la loro storia a lasciar emergere insieme a loro la propria parte meno amata, quella che dispera di farcela, la più debole, vale a dire la minore. Il dialetto romanesco accompagna con tenerezza e ironia tutta la vicenda, con un’attante protagonista che non rinuncia all’unica possibilità che gli è toccata, pur dubitando ogni volta che le cose possano mettersi bene. Il giorno delle nozze piange e piange, deriso da tutti perché porta a palazzo una ranocchia, mentre i suoi fratelli hanno due belle spose. Nonostante questo apre la camera della ranocchia per portarla alla cerimonia, e quando vede una bellissima fanciulla si scusa con lei dicendole che sta cercando la sua sposa: “Cercavi una ranocchia?”, chiede la bella. Nicolino afflitto risponde di sì: “Beh, la ranocchia sono io”. Nicolino non ci crede, anzi, non se la beve, finché la bella non gli spiega che solo quando qualcuno l’avesse sposata senza sapere che era bella l’incantesimo del quale era vittima avrebbe avuto fine. La rana è connessa alla fecondità e alla metamorfosi, alla possibilità che sbocci qualcosa che non prevediamo e che non possiamo controllare. Il modo in cui veniamo al mondo non è meno miracoloso e aleatorio – magico, dicono le fiabe – della metamorfosi delle ranocchie e dei ranocchi nelle favole. E la nostra possibilità di seguire il nostro desiderio comprende movimenti incerti come quello dei principi che seguono un gomitolo, una piuma o una palla d’oro. (AG) |
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La
Regina Marmotta Vetta del compito impossibile Quadrante nord-est |
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Nonostante il titolo della fiaba sia dedicato all’attante femminile, che certamente spicca con la sua decisione e il fascino del suo sontuoso palazzo, il protagonista de La Regina Marmotta è Andreino, il figlio minore del re di Spagna che porta a termine, a differenza dei suoi fratelli, il compito di trovare la medicina che può curare la cecità del padre: il compito è impossibile in quanto si tratta di andare a cercare un’acqua magica che si trova nell’Isola del Pianto, il reame incantato de La Regina Marmotta, che è lontano lontano al di là di un oceano dove nuotano enormi e terribili orsi bianchi. L’ingiunzione di questa fiaba è infatti la Vetta del compito impossibile, e, poiché il compito è imposto dal padre all’attante maschile, la storia si trova nel quadrante nord est. Italo Calvino, nell’introduzione delle sue Fiabe italiane, definisce La Regina Marmotta: ...il più ariostesco racconto che sia stato trascritto da bocca di popolano, figliato da non so qual sottoprodotto dell’epica cinquecentesca, non nella trama, che nelle sue grandi linee è quella d’una fiaba assai diffusa, e neppure nella fantastica geografia che era pure nei cantari cavallereschi, ma nel modo di raccontare, di creare il “meraviglioso” attraverso la dovizia di descrizioni di giardini e palazzi (assai più estese e letterarie nel testo montalese di quanto non appaia nel mio rifacimento, molto abbreviato, per non scostarmi troppo dal tono generale del libro. (Italo Calvino, Introduzione, in Fiabe italiane, Milano: Arnoldo Mondadori Editore, 2002, pp. 28-29) Il rifacimento molto abbreviato a cui accenna Calvino risulta particolarmente evidente nel confronto con il testo originale. Seguendo i criteri che hanno guidato il progetto di Fabulando, il piacere della narrazione densa di significato e il rigore filologico, abbiamo voluto proporre un affiancamento delle due versioni, e la diversa lunghezza dei due testi mostra di per sé le parti che Calvino non considera nella sua rinarrazione. Il lettore vedrà così che per quanto il linguaggio della versione originale è vivace e attinge alla concretezza tipica del linguaggio popolare ma anche al registro del meraviglioso in un miscuglio che muove i sentimenti, altrettanto il linguaggio della versione di Calvino è piano, poco modulato, privo di allargamenti descrittivi o di particolari curiosi. Quando nel 1956 Calvino ha pubblicato le sue Fiabe italiane ha realizzato un’operazione culturale importante: ha consentito la diffusione del patrimonio fiabesco italiano nell’Italia stessa. Fino ad allora le fiabe si trovavano pubblicate quasi soltanto nelle raccolte dialettali che erano (e sono) poco conosciute proprio perché trascritte nei molti dialetti locali parlati per lo più dalle generazioni più anziane e sempre meno da quelle più giovani. Rinarrare quelle fiabe nella lingua nazionale ha reso possibile a tutti la loro conoscenza, sia agli italiani sia agli stranieri, che traducono con più facilità i testi di Calvino che quelli in dialetto. Dobbiamo dire però che Calvino ha compiuto una scelta stilistica che va nella direzione opposta a quella dei grandi raccoglitori dell’Ottocento, dai quali pur trae le storie e per i quali pur dichiara la propria ammirazione. Questi studiosi, oltre un secolo fa, avevano tentato di valorizzare l’apporto linguistico e culturale proprio di ciascuna zona d’Italia facendo dialogare fra loro testi raccolti in luoghi anche lontani, mostrando i legami spesso sorprendenti fra le varie forme di narrazione, trascrivendo la lingua orale e annotandone le peculiarità linguistiche. Calvino invece sceglie di raccontare le fiabe in una lingua unica, uguale per tutte. Non intendiamo con ciò il fatto che abbia scelto l’italiano al posto dei dialetti, quanto piuttosto il fatto che quello da lui stesso definito il tono generale del libro sia improntato ad un registro in cui è annullata la diversità di andamento narrativo e di tono linguistico esistente fra le diverse fiabe raccontate nei diversi dialetti. Riteniamo che tale diversità sia il cuore della ricchezza culturale italiana e per questo abbiamo voluto affiancare da una parte i testi nella lingua originale che potrà gustare chi la conosce e consultare chi, pur non conoscendola, è curioso, dall’altra una traduzione italiana (inglese) rispettosa delle particolarità di ogni fiaba, perché ognuno possa accedere al mondo narrativo e linguistico di quella storia, anche leggendola nella sola lingua nazionale. (CC) |
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Il
testamento d'una fata Vetta del compito impossibile Quadrante sud-est |
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Questa fiaba ciociara comincia con la morte di una fata, evento piuttosto raro nel mondo pervaso dalla magia, che detta le sue ultime volontà al figlio: dovrà sposare le tre sorelle ai primi tre che passeranno per via, per poi sposarsi a sua volta. Obbedendo all’ingiunzione materna l’attante protagonista di questa storia offre le sorelle a tre umili personaggi, che le prendono e le portano via, rivelandosi presto alle malcapitate sposine come un porco, un piccione e uno scheletro. Nelle fiabe raramente ci sono matrimoni normali, essendo bizzarri nel dispositivo iniziale, o assolutamente felici nel lieto fine. Il testamento della fata sembra assurdo e nefasto, e il figlio non manca di rammaricarsene eseguendo la sua volontà, come non è contento della seconda ingiunzione, sempre femminile, che è costretto a seguire per incantesimo: non può sedersi né coricarsi se non trova la Margarita bella. Come ne I tre re animali la sua ricerca delle sorelle e della futura sposa è priva di coordinate e quindi impossibile, e la posta è altrettanto alta: la liberazione dalla forma animale dei tre cognati, il ritorno delle sorelle, la liberazione della Margarita bella dall’orco che l’aveva rapita, e la sua dall’incantesimo che gli impediva ogni forma di riposo. Questa fiaba ha elementi magici con i quali l’attante protagonista e i cognati suoi aiutanti non possono non confrontarsi, e questo difficile – o, meglio, impossibile - confronto rendere possibile la loro dissoluzione: la fata madre muore, l’orco fugge e scompare per sempre, la forma non umana dei tre cognati lascia il posto al ripristino della loro principesca figura. Merita un’osservazione la terza prova alla quale l’orco sottopone l’attante protagonista: passerà la notte con Margarita bella, ma l’orco li ingoierà entrambi se al mattino non gli faranno trovare un bambino bell’e nato. Solo di fronte all’avvicendamento delle generazioni, attestato da una magica fecondità della coppia dalla quale dipende la soluzione di tutti gli incantesimi negativi, l’orco si dichiarerà sconfitto. E come se la fiaba corrispondesse alla coppia Eros/Thanatos, Amore e Morte, fecondità e sterilità, il cognato che rende possibile la nuova vita è lo scheletro. Il reame delle figure magiche è un aldilà che ricorda sia il mondo dei sogni notturni e dei deliri, sia il regno dei morti: è qualcosa che ha a che fare con l’umano, che però allo stesso tempo impedisce e permette quella soggettivazione che rende compiutamente umani, finalmente liberi dalle ingiunzioni parentali e quindi fecondi. La fiaba prende avvio dall’ingiunzione della Vetta del compito impossibile, che si ripete più volte, dal testamento che le dà titolo alle prove imposte dall’orco, e si iscrive nel quadrante sud-est, essendo dettata dalla madre all’attante protagonista maschile. (AG) |
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Il
giovane e la lampada Palude dei derelitti Quadrante nord-est |
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Nella bellissima raccolta di fiabe Novellistica
italo-albanese, 1967 si trova una
ricchezza di motivi e combinazioni in buona parte
inaudite che fanno pensare a un popolo separato dalle
genti non arbrèshe e forse per questo dedito
all'alrte del racconto in misura così lussureggiante.
Molti sono i riferimenti, spesso elaborati in modi originali e diversi da quelli delle altre regioni meridionali, altrettanto ricchi, ma diversi da questi. Le opere alle quali il lettori ripensa più spesso sono Lo cunto de li cunti di Giambattista Basile e Le mille e una notte, ma viene anche in mente, Straparola. In ogni caso, non ci siamo lasciati scappare questo fratello fiabesco di Aladino. Nella comunità italiana albanese di Calabria, nel paese di Eianina, è stata raccolta negli anni Sessanta questa versione popolare della fiaba di Aladino. Come il protagonista non è nominato altro che come il giovane, al posto del sultano delle Mille e una notte si trova il re, e la principessa Badr al-Budur (Luna piena delle Lune piene) è qui nominata semplicemente come la figlia del re o la sposa del giovane. La lampada non viene mai definita magica, e non ne esce nessun genio. Però come la sua letteraria parente costruisce un castello tutto d’oro in una sola notte, e sa anche trasportarlo in volo, per ordine del mago che si è impadronito della lampada, in mezzo al mare. Il mago, come il suo corrispettivo narrato da Galland nella prima versione europea delle Mille e una notte, ottiene la lampada di Aladino andando in giro a offrire lampade nuove per vecchie lampade. La fiaba fa parte di quelle narrate a Galland da Hannà, maronita di Aleppo, come L’uccello Bulbul Hezar, compreso in questa raccolta. L’avvio delle fiaba è lacunoso: il mago convince la madre del giovane a darglielo come lavorante, e presto lo chiude nel pozzo, come il suo alter ego più illustre che abbiamo nominato. Ma il narratore arbërëshe non ci dice perché, né perché voglia poi vendicarsi portandogli via castello d’oro, sposa e madre. La lacuna è per noi preziosa, perché attesta la provenienza della fiaba dalla tradizione colta insieme alla capacità popolare di farla propria. È la democrazia delle fiabe, la loro mirabile e certa magia. (AG) |
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I
sette piccioncini Labirinto dell'impegno impossibile Quadrante sud-ovest |
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Cianna, l'attante protagonista, vuole ritrovare i sette fratelli che se ne sono andati alla sua nascita, a causa di un involontario errore materno. Quando li ritrova a servizio di un orco misogino, la felicità della loro riunione cessa per un suo involontario errore a causa del quale i fratelli diventano sette piccioncini. Si rinnova l'impegno impossibile di Cianna, che per riumanizzarli si mette in viaggio alla volta del Tempo. Lungo il rischioso cammino, dà ascolto a creature che le chiedono aiuto in cambio di preziose istruzioni su come raggiungere la casa del Tempo. L'attante protagonista raggiunge la sua meta: permette così ai fratelli di ritrovare la forma umana e soddisfa i desideri di tutte le creature che aveva incontrato. Queste, a loro volta, consentono agli otto giovani di affrontare e superare gli ostacoli che impedirebbero il loro felice ritorno. Questa è una delle più belle fra le meravigliose fiabe di Basile, non solo per la complessità e la coerenza della sua struttura narrativa, ma anche perché in essa si realizza esplicitamente quella attitudine a liberarsi liberando altre creature che è l'etica stessa di tutte le fiabe. La favola ha come protagonista un'attante femminile e parte da un'implicita ingiunzione materna, figura dunque nel Quadrante sud-ovest. L'ingiunzione è quella del Labirinto dell'impegno impossibile in quanto Cianna sceglie autonomamente di rimediare a tutto ciò che ha causato la perdita dei suoi sette fratelli, in primo luogo perché hanno abbandonato la madre e lei stessa, poi perché sono stati esclusi dal mondo umano. Basile ci offre in questa fiaba un lungo elenco di predatori e di piccoli uccellini, per bocca dei sette fratelli di Cianna quando tornano da lei a rimproverarla per aver causato la loro metamorfosi. Ne offriamo un'IMMAGINE e una TABELLA che presenta diverse traduzioni italiane e inglesi dei nomi elencati da Basile, di aprire una loro fotografia e di sentire il loro verso. (Nel sito Psicoanalisi e favole di Adalinda Gasparini, vedi: IMMAGINE, TABELLA) (AG) |
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Violetta Labirinto dell'impegno impossibile Quadrante nord-ovest |
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L'ingiunzione di Violetta è il Labirinto del compito impossibile, perché l'attante protagonista segue il suo desiderio, di non sottomettersi al figlio del re, affermando anzi la sua superiorità. Agisce contro l'autorità maschile, sia quella del padre che tenta di allontanarla dall'occasione di competere col principe, sia la norma sociale e culturale per la quale una povera femmina deve soggiacere all'autorità di un maschio regale. Si comprende quindi come si trovi nel quadrante nord ovest: la realizzazione del suo desiderio esige la vittoria sulla regola sociale. I suoi alleati infatti sono decisamente anti-convenzionali: un orco ingenuo e teneramente paterno, e le fate femministe. Violetta è la bellissima figlia di un pover’uomo, e il figlio del re si innamora di lei. Quando la saluta lei lo prende in giro: "Bonní, figlio de lo re! io saccio chiú de te!". Il senso comune, rappresentato dal padre e dalle sorelle di Violetta, la esortano a non parlare senza rispetto al figlio del re, perché anche a loro potrebbe derivarne un danno, ma la schermaglia amorosa continua. Il padre la allontana mandandola da una zia maestra di cucito, ma il principe la scopre e convince la sarta ad aiutarlo con Violetta. La ragazza però si accorge della tresca e lascia il principe con un palmo di naso. Violetta, armata della sua parola e della sua determinazione, potrebbe essere la protagonista di una novella, se a un certo punto, quando le sorelle cercano di farla fuori, non cadesse nel giardino di un orco straordinario, che crede di aver messo al mondo la bella fanciulla con un peto. La tiene con sé come figlia e le assegna come maestre alcune fate amiche sue. Si potrebbero definire protofemministe le fate di Violetta, visto il sostegno che danno alla sua determinazione di non piegarsi al principe. Il regale corteggiatore fa di tutto per vincere Violetta, ma alla fine deve capitolare e sposarla, dato che questo è l’unico modo di possederla. L’orco e le fate aiutano Violetta, come in tutte le fiabe, perché la loro funzione è sostenere l’attante protagonista lungo il suo cammino di crescita. L’attante protagonista non sacrifica mai nulla agli idoli del senso comune o ai personaggi potenti, e potrebbero rappresentare doti ancora non scoperte e imprevedibili, come risorse vitali che emergono solo quando il soggetto segue il suo desiderio, pronto a rischiare anche la vita. Violetta non può contare su suo padre né sulle sue sorelle pavide e invidiose, ma quando queste tentano di eliminarla trova un tenero padre e delle fate protofemministe. Realizza il suo desiderio, di essere pari, o anche superiore, al figlio del re. Nella favola di Giambattista Basile, che abbiamo scelto per la nostra raccolta, le nozze rappresentano il lieto fine. Ma secondo certe versioni popolari della fiaba il possesso legale non basta, e la storia continua. Violetta se che il suo principe non sopporta di essere stato sconfitto, e teme la sua vendetta. Così si fa fare dalle fate una bambola di zucchero ripiena di rosolio uguale a lei, e la notte di nozze la mette nel letto, nascondendosi poi dietro una tenda. Arriva il principe e gridando che finalmente la fanciulla è in suo potere le pianta un pugnale nel cuore e vuole leccarne il sangue. Sentendo la dolcezza del rosolio, il principe si pente: come ha potuto uccidere una creatura così dolce? Il suo dolore e il suo rimorso sono così smisurati che estrae il pugnale per uccidersi, ma Violetta esce da dietro la tenda e gli offre tutta la dolcezza che credeva di aver perduto. La fiaba sembra suggerire qualcosa sulla violenza che gli uomini esercitano sulle donne, e sulla possibilità di addolcirla e trasformarla in amore. Non ignoriamo che si tratta di un compito impossibile, a meno che non si possa contare sull’aiuto di un tenero orco e di un gruppo di fate femministe. L'ingiunzione di Violetta è il Labirinto del compito impossibile, perché l'attante protagonista segue il suo desiderio, di non sottomettersi al figlio del re, affermando anzi la sua superiorità, nonostante sia povera e quindi destinata alla sottomissione. Sua antagonista è l'autorità paterna, sia quella di suo padre che tenta di allontanarla dall'occasione di competere col principe, sia la norma sociale e culturale per la quale una femmina povera non può che subire l'autorità di un maschio ricco e nobile. Si comprende quindi come si trovi nel quadrante nord ovest: la realizzazione del suo desiderio esige la vittoria sulla regola sociale, rappresentata sia dal padre che dal re. I suoi alleati infatti sono decisamente anti-convenzionali: un orco ingenuo e teneramente paterno, e le fate proto-femministe. (AG) |
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L'aquila
d'oro Labirinto dell'impegno impossibile Quadrante nord-est |
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L'attante protagonista Arighetto, figlio
dell'imperatore tedesco, desidera conquistare la
principessa Lena, figlia del re d'Aragona. Per poterla
avvicinare, fa costruire un'aquila d'oro nella quale si
nasconde. Quando il re regala l'aquila d'oro alla figlia,
Arighetto può finalmente incontrare Lena che si innamora
di lui. I due fuggono di nascosto per recarsi nel castello
di Arighetto. Allora il re d'Aragona dichiara guerra
all'imperatore tedesco: entrambi chiamano a raccolta i
propri alleati e tutti i popoli d'Europa sono coinvolti in
una battaglia, piena di bandiere, armi, squilli di trombe
e rombi di tamburo, duelli cruenti e massacri, ma tutti
rispettano comunque le regole della cavalleria. Alla fine,
l'intervento del Papa pone fine alla guerra costringendo i
belligeranti a fare pace. Si celebrano così due
matrimoni: Arighetto sposa Lena, mentre Prinzivalle,
fratello di Lena, sposa la sorella di Arighetto. L'associazione con l'epica di Omero è immediato: qui Lena o Elena, nell'Iliade Elena, e in entrambi i casi il ratto provoca una grande guerra. Nella fiaba, diversamente che nell'epica e nella tragedia, l'esito non è la distruzione di una delle due parti o di entrambe, ma un lieto fine con due matrimoni regali. L'andamento della storia e i suoi protagonisti ricordano antiche battaglie epiche e insieme la grazia dell'amor cortese. Questa favola italiana del XIV secolo può essere adottata da insegnanti e genitori come introduzione alla conoscenza dell'Europa, dei suoi popoli, delle sue guerre, della sua pace. In questa fiaba l'ingiunzione è il Labirinto dell'impegno impossibile, in quanto è l'attante principale che decide da sé di seguire il proprio desiderio, la cui realizzazione sembra impossibile. L'Aquila d'oro si trova nel quadrante nord est poiché l'attante protagnosita è maschile, Arighetto, e il suo antagonista è il re d'Aragona, una figura paterna. (AG) |
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Meni
Fari Labirinto dell'impegno impossibile Quadrante nord-est |
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In questa fiaba Gesù e i discepoli in incognito capitano davanti alla casa dell'attante protagonista, il fabbro Menico. Gesù incarica san Pietro di entrare da lui tre volte per chiedere la carità, e san Pietro ottiene uno dopo l'altro i soli tre soldi con i quali il fabbro doveva mangiare, fumare un sigaro e mettere l'olio nella lampada. Come ricompensa a tanta generosità Gesù promette al fabbro di esaudire tre suoi desideri. Anziché chiedere ricchezze, palazzi, giovinezza, il fabbro chiede e ottiene che il suo violino, il suo panchetto e il suo albero di fico diventino magici. Grazie a ciò l'attante protagonista sconfigge la morte e il diavolo imprigionandoli a suo piacimento. Il fabbro ha quindi chiesto e ottenuto di realizzare il desiderio impossibile per eccellenza: evitare di essere preso dalla morte. Dopo una lunghissima vita il fabbro decide di andare a vedere cosa c'è nell'Aldilà, ma san Pietro gli impedisce di visitare il Paradiso perché secondo lui ha fatto cattivo uso dei doni concessigli dal Signore. Respinto anche dagli angeli del Purgatorio, il fabbro bussa all'inferno, ma il diavolo ha conosciuto il suo potere e avverte tutti i diavoli perché non lo facciano avvicinare. Tornato alle porte del Paradiso, Meni Fari con uno stratagemma elude la sorveglianza di san Pietro e ottiene un piccolo posto appena oltre la porta, seduto sulla giacchetta e col suo violino in mano, suonando il quale costringe a ballare chiunque, anche i santi. In altre fiabe si racconta di attanti che non hanno paura di nulla, nemmeno della morte; sono le due fiabe di Giovannin senza paura e di Giovannino e la pelle d'oca. Meni Fari conosce bene l'esistenza della morte e gli fa tanta paura che i suoi tre desideri realizzano la possibilità di evitarla. Al contrario i due Giovannini non la conoscono. E mentre Giovannin senza paura non percepisce come una mancanza la sua ignoranza della morte e ne sarà afferrato all'improvviso, l'altro Giovannino cerca il brivido della paura perché ne sente la mancanza. Attraversa peripezie analoghe al suo più sfortunato fratello fiabesco, e solo dopo aver provato la pelle d'oca lui e la sua favola giungeranno al lieto fine. Quella di Meni Fari è una fiaba-parabola laica che sembra raccontare come vincere la paura della morte sia un impegno impossibile, eppure si realizza, consentendo all'attante protagonista di non essere dominato dalla paura né di ciò che gli capita sulla terra né di quanto potrebbe accadergli nell'aldilà. La fiaba di Meni Fari, attante protagonista maschile, si trova nel quadrante nord-est perché san Pietro rappresenta la figura paterna antagonista che disapprova la scelta del fabbro. L'ingiunzione è il Labirinto dell'impegno impossibile. (AG) |
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Mastro Benigno Labirinto dell'impegno impossibile Quadrante nord-est |
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Sul sito della Royal Society Publishing House possiamo leggere i risultati di una ricerca (Comparative phylogenetic analyses uncover the ancient roots of Indo-European folktales. Sara Graça da Silva, Jamshid J. Tehrani), pubblicati nel 2016, secondo la quale le strutture narrative delle fiabe sarebbero state presenti molto tempo prima della loro scrittura. In particolare la storia Il fabbro e il diavolo, vale a dire il tipo di Mastro Benigno e di Meni Fari, sarebbe stata già presente nell'età del bronzo (3300-1200 a. C.). Nelle popolazione senza scrittura le strutture narrative raccolte dai viaggiatori e dagli studiosi sono allo stesso tempo storie religiose, miti, fiabe e novelle moralistiche. Noi riteniamo che la fiaba - più particolarmente la fiaba europea, successivamente diffusa nel mondo attraverso i colonizzatori e missionari - come genere nasca nel XVI secolo, ovvero nel tempo della riforma e della controriforma. Il metodo dei ricercatori il cui lavoro figura sul citato sito della Royal Society non si occupa della differenza fra storie religiose, considerate vere e fondanti in un certo tempo, da una certa comunità, i miti, le fiabe, le favole, le leggende, gli apologhi. Resta interessante e apre prospettive d'indagine non insignificanti rintracciare un motivo narrativo applicando un metodo biologico - nato per comprendere le migrazioni degli esseri umani grazie al rilevamento del DNA - al campo dell'espressione narrativa. Non dubitiamo, in ogni caso, che storie dell'essere umano che forgia i metalli siano associate alla capacità umana di giocare o gabbare potenze sovrannaturali, come il diavolo o la Morte. Perizia tecnica e intelligenza svincolata dal pensiero comune, spesso atterrito di fronte all'ignoto (c'è qualcosa di più ignoto della Morte?), sono al cuore della nostra condizione umana, paradossale o miracolosa, perennemente esiliata dalla grazia eppure capace di meritarla vincendo ostacoli in apparenza insormontabili. Homo faber fortunae suae, come recita un adagio latino: il fabbro rappresenta l'uomo che grazie al fuoco forgia i metalli, prima quelli ricavati dalle meteoriti - di origine celeste (è dal latino sidera, stelle, viene la parola siderurgia) - poi quelli terresti, estratti dalle viscere della terra madre. L'uomo lavora ciò che estrae con gli strumenti che gli sono propri: è perciò artefice, fabbro, del suo destino. Venendo alla nostra fiaba, il fabbro Benigno - nomen est omen - in una notte di pioggia ospita un'intera comitiva di viandanti, senza sapere che sono Gesù, il Maestro, san Pietro, e altri discepoli. Li scalda, li sfama e li disseta: sfamare gli affamati è una delle sette opere di misericordia. Né chiederebbe nulla in cambio, se non fosse per il suggerimento di san Pietro. Ma a differenza degli oggetti magici per lo più chiesti e ottenuti nelle favole, quel che mastro Benigno chiede e ottiene lo usa solo per moltiplicare il tempo della sua vita: non cerca nessun dominio su oggetti o altri esseri viventi. Sembra che mastro Benigno ci indichi una verità difficile e luminosa: il vero bene, l'unico, è la vita stessa. Grazie ai suoi oggetti magici il mastro fabbro moltiplica la vita per otto volte, prima di seguire senza scherzi la Morte, inviata per la terza volta dal Maestro Gesù perché lasci questo mondo. Questo antico homo faber ci appare come un magnifico homo laicus, non solo perché per lui il massimo bene della vita è la vita stessa, ma da come si comporta una volta arrivato nell'Aldilà. Più semplice e forse più elegante del suo fratello fiabesco già ricordato e presente in Fabulando, Meni Fari, Mastro Benigno non è empio, né ignora i propri limiti. Chi gli ha concesso i tre doni, Gesù Cristo, nominato per tutta la fiaba come il Maestro, con la maiuscola, non poteva non sapere come il mastro fabbro Benigno, avrebbe potuto usarle. Mastro Benigno, maestro con la minuscola dell'arte che piega i metalli col fuoco, si pone di fronte al Maestro con tutta la dignità che l'uomo può esprimere, disponendo di quel fuoco che Prometeo ha sottratto per lui agli dei. La dignità del mastro fabbro è della stessa materia del soggetto letterario che dalla sua comparsa ha goduto e gode tuttora di una fortuna universale e ininterrotta: Odisseo, Nessuno, Ulisse. Mastro Benigno è una semplice fiaba, non una favola sapienziale, una fiaba di quelle, come si diceva sopra, nate nel secolo della Riforma e della Controriforma. Ma il modo in cui ci racconta che il bene più grande della è la vita stessa, ci commuove e ci paice di più del suggerimento esplicito degli apologhi e delle storie sapienziali stesse. Qualcuno, generoso e mai avido, riconoscendo il potere divino ha potuto forgiare il suo destino, chiedendo e ottenendo per sé una parte del potere divino: potere di respingere la morte e il diavolo, per prolungare la vita moltiplicandone per otto la durata, potere di entrare con in Paradiso giocando san Pietro. Se mastro Benigno ha diritto - in nome di Dio! - di entrare nel suo zaino, san Pietro, che non ricordava il terzo dono, potrà dolersi della propria dabbenaggine. È del resto il suo carattere, è l'uomo che dimentica, come il mastro Fabbro è l'uomo che ricorda: azzardiamo un'analogia, vedendo in san Pietro col mastro fabbro una coppia discendente dalla grande coppia mitica dei fratelli titani Prometeo ed Epimeteo. Se ha dimenticato che lo zaino di mastro Benigno è fatato, questa dimenticanza non è certo più grave di quella che secondo i Vangeli gli ha fatto dimenticare il suo Maestro, rinnegandolo per tre volte nella notte in cui Pilato lo torturava. Il Maestro ama giocare col maestro, che gioca la scintilla divina della sua intelligenza, non meno che con l'uomo che per paura rinnega ciò a cui aveva giurato fedeltà, ora giudice e portinaio del Paradiso. Che non capisce questo gusto del gioco fra divino e umano: ma è costretto ad accettarlo. Potrebbe essere intesa come un inno alla vita, corrispondente all'inno alla vita della comunità che l'ha tramandata fino a noi, gli Occitani di Guardia Piemontese, in Calabria. Dopo essere fuggiti dal Piemonte, loro luogo di origine, durante le persecuzioni dei Valdesi nel XII secolo, i protestanti vennero allo scoperto secoli dopo, al tempo della Riforma, per subire poco tempo dopo la persecuzione durante la Controriforma. Ai pochi che erano rimasti vivi, convertiti con la forza, era stato proibito di professare il loro culto e di parlare la loro lingua, ma nonostante questo i membri delal piccola comunità sopravvissuta hanno custodito le loro tradizioni fino a quando un demologo - così si chiamavano allora i ricercatori di tradizioni popolari, verso la fine del XIX secolo - riconobbe la loro sorprendente presenza. La damnatio memoriae controriformistica non era riuscita, nonostante un collegio di gesuiti eretto nei pressi, i cui padri potevano utilizzare uno spioncino apribile dall'esterno delle case per controllare che nessuno contravvenisse alle regole imposte dai cattolici. (AG, 4 febbraio 2018) |
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I
tre re animali Labirinto dell'impegno impossibile Quadrante sud-est |
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Il principe ereditario si mette in cammino per ritrovare le tre sorelle che prima della sua nascita sono state rapite, ovvero sposate contro la volontà paterna, da tre re animali, un falco, un cervo e un delfino. Abitano in dimore meravigliose isolate dal resto del mondo, il cui archetipo risale al secondo secolo dopo Cristo: il palazzo dove Amore conduce Psiche nella fiaba posta da Apuleio al centro de Le metamorfosi o Asino d’oro. È la regina madre a determinare la condizione dell’impresa dell’attante protagonista, dando alle figlie e al figlio quattro anelli uguali perché possano riconoscersi se mai si rincontreranno. Se in un film appare una pistola, prima della fine del film la pistola sparerà; se in una fiaba c’è una separazione, prima della fine ci sarà la riunione delle creature che erano state separate. Analogamente, se si presenta qualcuno vittima di un incantesimo negativo, la legge della fiaba prevede che si realizzi l’incantesimo opposto, verso una liberazione che un’umanizzazione: non umano è il castello separato dal mondo, non umana è la forma dei tre sposi. Il principio maschile giovane, il principe, muovendosi lega tutti gli altri, e compensa la perdita di eredi che riguarda il suo regno, i regni dei tre animali, e quello della principessa prigioniera del drago che diventerà la sua sposa. Il tema della successione fra generazioni è qui moltiplicato, e la sterilità significata dalla lontananza dal loro regno degli otto giovani racconta di un arresto della vita stessa. Si noti che le nozze fra i re animali e le tre principesse sono sterili fino al loro ritorno al mondo umano, alla forma umana dei tre re e al reame, al trono sul quale dovranno salire. Come ha scritto Calvino, l’etica della fiaba è liberare liberando, e questa storia la mostra moltiplicata, perché ogni liberazione è connessa alle altre, sia come causa che come effetto. Si iscrive questa fiaba nel quadrante sud-est perché l’attante protagonista è il giovane principe, senza il quale i principi e le principesse resterebbero lontani dal mondo umano. La sua ingiunzione è il Labirinto dell’impegno impossibile perché l’attante decide autonomamente di partire. L’ingiunzione è materna perché è la regina madre, col dono dei quattro anelli, a determinare la condizione perché il figlio minore, principe ereditario, possa assumersi volontariamente il compito di porre fine alla sterilità conseguente all’allontamento dal mondo umano dei tre re animali, delle principesse loro spose, e della principessa prigioniera del drago che diventerà la sua sposa. Si può confrontare questa fiaba con Il testamento di una fata, dove la madre dell’attante protagonista, morendo, gli impone un compito impossibile che determina un cammino sostanzialmente coincidente con l’impegno impossibile dei Tre re animali. (AG) |
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Violetta
romaní Labirinto dell'impegno impossibile Quadrante nord-oves |
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Per chi legga questa fiaba nella traduzione italiana, ben pochi dettagli possono essere riferiti a una tradizione romaní distinta da quella di fiabe popolari italiane ed europee dello stesso tipo, che hanno nella Violetta di Giovan Battista Basile il loro prototipo. Chi voglia sentire la sua particolarità dovrà quindi misurarsi con la versione romaní. La storia della contadina saggia, che con la sua perspicacia batte il re nell'aministrazione della giustizia e vince il suo sdegno con amorosa astuzia, ricorda la novella di Griselda. Se la protagonista della centesima favola di Boccaccio ha una sovrumana pazienza, Violetta ha una altrettanto sovrumana astuzia, unita alla capacità - comune con quella di Griselda - di non opporsi frontalmente al detentore del potere, che non tollera di essere contraddetto da lei nell'esercizio delle sue regali funzioni. Astuzia che ricorda il finale popolare della fiaba di Violetta: sicura che il suo regale pretendente sposandola non abbia affatto rinunciato a vendicarsi, la protagonista mette al suo posto nel letto nuziale una bambola di zucchero, ripiena di miele o di rosolio. Il re, ancora infuriato per aver perso il contrasto con la protagonista che non gli ha ceduto, inizia la prima notte di nozze trafiggendo la bambola con la spada. Poi, credendo di leccare il sangue della sposa, si commuove sentando tanta dolcezza, e sta per uccidersi per la perdita. Allora la protagonista esce dal suo nascondiglio e lo ferma: ora la coppia può finalmente vivere felice e contenta. (Vedi in Fabulando il finale aggiunto alla Violetta di Basile; vedi anche, nella raccolta di Giuseppe Pitrè la fiaba siciliana on line La grasta di lu basilicò). L'attante protagonista è femminile e la sua azione si sviluppa in rapporto al padre - che non la comprende - e al re suo sposo: si trova infatti nel quadrante nord-ovest. L'ingiunzione della fiaba, come nella Violetta di Basile, è il Labirinto dell'impegno impossibile perché l'azione della protagonista dipende dalla sua scelta più che dalle decisioni dei personaggi maschili. (AG) |
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Caterina
la sapiente Labirinto dell'impegno impossibile Quadrante nord-ovest |
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Il principe presenta la storia di Caterina la sapiente Ero andato pieno di buona volontà a scuola da Caterina, e pensavo che si sarebbe sentita onorata di avere il principe ereditario ad ascoltarla. E invece mi diede un ceffone alla prima risposta che non seppi darle! Che storia la nostra, la VI raccolta da Pitrè! Un maschio, e per giunta di sangue reale, non può vivere subendo un affronto come quello, da una femmina, e per giunta figlia di un mercante. Ma Caterina era proprio tremenda: mi sarebbe bastato che dicesse che le dispiaceva avermi messo le mani addosso, e l’avrei perdonata, e invece no! Non solo non era pentita, ma minacciava di picchiarmi di nuovo, e allora decisi che per amore o per forza avrebbe dovuto obbedirmi. La sposai, e la prima notte di nozze la calai giù nella ghiacciaia, ma lei continuò a non pentirsi. Non capivo come facesse a stare così bene là senza mangiare. Forse aveva studiato qualche metodo per resistere digiunando, e allora partii per Napoli, e poi andai a stare a Genova, e poi a Venezia, per dimenticarmi di lei. Ma dove andavo c’era sempre una che le somigliava, e proprio per questo quelle signore mi piacevano e me le sposavo. A quei tempi, nel regno delle fiabe, a noi principi ereditari era permesso, che volete? Ma per quanto potessi permettermi di prendere più mogli, e di tenerne una in prigione a casa mia in una specie di cella frigorifera, non riuscivo a domare Caterina, e ogni volta che ci parlavo era più bella e spiritosa che mai. Come ci rimasi quando si presentò con i nostri tre bambini, mentre io credevo di averla tradita con tre donne diverse! Era proprio sapiente, non c’è che dire, e io, dopo aver riconosciuto che proprio per la sua intelligenza mi piaceva tanto, mi sono rassegnato a non comandarla, ma a chiederle di amarmi, dandole in cambio il mio amore. Sapete, nelle fiabe la parità tra maschi e femmine, tra mogli e mariti, tra principi ereditari e figlie di mercanti esiste davvero, anche se sono storie raccontate un secolo fa, come questa mia e di Caterina. Mi hanno detto che questa parità c’è di diritto, che ormai non c’è più bisogno di conquistarsela, come ha fatto Caterina viaggiando per l’Italia intera su quei brigantini snelli e veloci. Ma è proprio vero? (AG) (Tratto da: Sorgente di meraviglie. Fiabe antiche e popolari nei diversi idiomi d'Italia. Volume I: Sicilia. A cura di Claudia Chellini e Adalinda Gasparini. Foschi Editore: Forlì 2018. ll principe commenta la fiaba di Caterina la sapiente, pp.118-119) Credo che dopo il tramonto dell'utopia umanistica e rinascimentale la libertà della donna abbia trovato nelle fiabe un riparo tanto umile quanto solido e duraturo. Perché le fiabe, che non hanno testimoni diretti, nemmeno nelle generazioni che hanno preceduto quella del narratore, non servono al potere, e per questo non ne sono soggette. Nel Cinquecento veneziano di Giovan Francesco Straparola troviamo una bellissima versione di questa fiaba, o favola, o novella che dir si voglia: la protagonista, avendo pregato a lungo per il ritorno del marito, ricorre alla magia nera e va a visitarlo in incognita dove si è fermato troppo a lungo. Il motivo del volo notturno a cavallo di un demone - ma qui vero e proprio diavolo fatto arrivare dall'inferno - potrebbe venire dalla Mille e una notte, e se Straparola, come è stato ipotizzato, ha passato qualche decennio nel Vicino Oriente per un incarico della Serenissima, potrebbe averlo conosciuto nella tradizione delle Mille e una notte, dove i demoni, convertiti all'Islam, servono i credenti proprio come la cavalcatura della sposa volante, che di sua iniziativa le procura le prove che presenterà al marito incredulo, e ai fratelli che la credono adultera. (Vedi, nel sito Psicoanalisi e favole Isabella e Teodosio, Le piacevoli notti, notte VII, favola I) (AG) |
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Cappuccetto
rosso Bivio del compito possibile Quadrante sud-ovest |
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Chi ha sentito la versione originaria della fiaba, nella quale non arriva nessun cacciatore, che finisce con il lupo ben sazio nel letto della nonna, avendo senza rischio incorporato lei e Cappuccetto? La versione narrata alla corte del Re Sole da Perrault si conclude con un ammonimento alle fanciulle, a non cedere alle lusinghe dei corteggiatori che minacciano la loro virtù, specialmente di quelli garbati e gentili, che sono poi i più pericolosi. Ma questa valenza edificante e pedagogica non esaurisce il ricco senso della fiaba, che è una delle più note e rinarrate in Europa, sia nei libri di fiabe sia col cinema e i nuovi media. Cappuccetto, per il suo nome e l’indumento rosso che la caratterizza, e ancor più per il suo movimento nell’elemento femminile, può significare il bambino come la bambina, nella loro funzione di movimento, che non esce dalla sfera materna: la madre la invia dalla propria madre, il percorso è tutto compreso nel bosco, luogo di Madre Natura, e il lupo è qui nella sua funzione di belva divoratrice. Partendo dalla madre e andando dalla grande madre, passando per la natura selvaggia, apparentemente il compito dell’attante è possibile, facile. In realtà questa facilità dipende dalla possibilità di evitare l’incontro con la funzione divorante, incorporante, infine reinfetante, del materno stesso. Come tutti gli attanti del Bivio del compito possibile, Cappuccetto fa la sola azione autonoma che il suo orizzonte narrativo prevede: trasgredisce l’indicazione materna, incontrando così la minaccia che nel mondo materno idealizzato si misconosce. Se poi pensiamo alla fiaba nella versione più diffusa, troviamo una conferma alla nostra suggestione interpretativa: senza l’intervento del cacciatore, che è la figura maschile capace di entrare nel bosco fornito di armi e conoscenze che gli consentono di trarne nutrimento e uscirne, la fiaba avrebbe l’esito fatale che è di Perrault. Il lupo ha divorato/reinfetato la generazione vecchia e quella giovane, doppio selvaggio e mortifero della madre civile e donatrice, e solo una seconda nascita, operata dalla figura paterna con quella specie di taglio cesareo consente a Cappuccetto di uscire, e al tempo di scorrere insieme alle generazioni. (AG) Di questa fiaba esiste anche l'e-kamishibai, accessibile dalla carta della fiaba. |
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Giovannin
senza paura Bivio del compito possibile Quadrante nord-est |
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Italo Calvino, che si pone come ultimo anello di una lunga catena di narratori, scrive che …le fiabe sono vere. Sono nel loro insieme una spiegazione generale della vita, con la loro registrazione sempre ripetuta e sempre varia degli accadimenti umani. (Fiabe italiane, p. 15) Apre la sua raccolta con questa fiaba, annotando che in questo caso particolare non cita le sue fonti perché l’ha rinarrata ispirandosi alle versioni popolari diffuse in tutta Italia. Inizio questa raccolta con una fiaba per la quale, a differenza che per tutte le altre, non cito la versione che ho seguito, perché è diffusa si può dire in tutta l'Italia settentrionale e centrale in versioni molto simili e io mi sono tenuto liberamente alla tradizione comune. Non solo per questo mi piace metterla per prima, ma anche perché è una delle fiabe più semplici ed anche, per me, una delle più belle. Non fa una grinza, come il suo imperturbabile protagonista; si distingue dalle innumerevoli "storie di paure" a base di morti e di spiriti, perché dimostra verso il soprannaturale una tranquilla fermezza che dà tutto per possibile, senza sottostare alla soggezione dell'ignoto. (Ivi, p. 85-86) Riconoscendo la tranquilla imperturbabilità di Giovannino al cospetto dell’ignoto, dobbiamo però riconoscere anche la sua totale ignoranza della propria ombra, o del suo posteriore. La versione più diffusa racconta che Giovannino una volta accettò di farsi tagliare la testa da qualcuno che gliela avrebbe riattaccata, ma siccome gliela rimise a rovescio si vide il sedere e morì per lo spavento. Non sappiamo perché Calvino non abbia proposto una riflessione sul terrore che il suo Giovannino prova di fronte all’ignoto rappresentato, o proiettato, dal suo stesso corpo. Gli fa paura da morire una cosa che è di tutti, e che i bambini conoscono bene. Aver paura anche della propria ombra è un modo per indicare una pavidità straordinaria, la condizione di qualcuno che ha paura di tutto, a differenza di Giovannino che prima del tragico finale non ha paura di nulla. I bambini delle scuole elementari ai quali raccontavo questa fiaba si divertivano per il contrasto fra la tranquillità di Giovannino fra spettri e morti che cadevano dalla cappa del camino pezzo dopo pezzo e il fatto che alla fine muoia di paura vedendo la sua ombra o il suo sedere. Bambini che non passerebbero mai una notte in un castello stregato, e forse non si addormenterebbero senza una piccola luce accesa, non hanno però nessuna paura della loro ombra, e così si sentono rassicurati e ridono di gusto. (Per il lavoro di Adalinda Gasparini nella scuola, vedi anche la sezione Scuola, nel sito Adalinda Gasparini, Psicoanalisi e favole) La nostra ombra e il nostro posteriore sono ciò che ci segue sempre, invisibile se non ci voltiamo mai indietro, e se pensiamo che non esista nulla di misterioso, da temere, l’irruzione improvvisa di questo ignoto, vale a dire dell’inconscio, ci annienta. Quale bambino sarebbe disposto a lasciarsi tagliare la testa? Giovannino pare proprio un essere imperturbabile, e ascoltando la sua fiaba i bambini si vergognano delle loro paure,rassicurarsi quando sentono che lui muore per una cosa così naturale. La predilezione di Italo Calvino per questo personaggio ci fa pensare a un ideale pedagogico per il quale la vita psichica si riduce alla coscienza, nonostante sia evidente, anche ignorando la psicoanalisi, che l’inconscio esiste, e determina in tanta parte la nostra vita, anche se, e soprattutto se, ne rimuoviamo i segnali e la percezione. Possiamo cercare di ignorare il perturbante (unheimliche) mistero della note, del sonno, dei sogni e degli incubi, dei fantasmi e dei morti che vengono a spaventarci, ma non vivremo mai nemmeno un giorno al quale non segua una notte, né muoveremo un passo senza la nostra ombra o il nostro didietro. Abbiamo incluso in Fabulando questa versione di Giovannin senza paura per mettere in guardia dall’illusione pedagogica che porta certi genitori a cercar di convincere il loro bambino spaventato nella notte dicendogli semplicemente che non c’è nulla di cui aver paura. Affermazione che sembra realistica come Giovannino sembra coraggioso, ma molto lontana dalla realtà, perché la vita è piena di rischi e pericoli, per non pensare al terrore che proviamo dopo un incubo, alle fobie o agli attacchi di panico. Molto presto conosciamo l’esistenza della morte, dove affondano le radici di tutte le nostre paure. Nel poema induista Mahabharata, in un dialogo sapienziale si chiede quale sia il miracolo più grande, e la risposta è il miracolo più grande è che noi sappiamo che potremmo morire in qualunque momento, e viviamo quasi come se fossimo immortali. La nostra dignità umana ha bisogno dello spazio tenuto aperto dalla parola quasi, perché il soggetto che non conosce questo spazio vive come se la morte e la paura non esistessero. Giovannino ignora la paura e la morte, per questo è imperturbabile, e per questo muore la prima volta che vede la sua ombra, vale a dire ciò che lo segue senza che lui lo sappia. In una versione antica di questa fiaba, la prima pubblicata nel mondo, troviamo una chiave che ci consente di comprenderla meglio: fa parte della raccolta cinquecentesca Le piacevoli notti di Giovan Francesco Straparola (Flamminio senza paura, quarta storia della notte quinta, nel sito Adalinda Gasparini, Psicoanalisi e favole). Altre notazioni su Giovannin senza paura si trovano in questa pagina a proposito di Giovannino e la pelle d’oca, che appartiene allo stesso tipo ma comincia con una diversa ingiunzione e ha un finale diverso. Giovannin senza paura si apre con l’ingiunzione del Bivio del compito possibile. Non ci sono attanti parentali che propongano nulla all’attante principale, ma consideriamo l’illusoria facilità di una vita priva di paura come dipendente dall'assenza del padre, della sua parola e della legge che incarna. La mancanza del padre ha come conseguenza l’assenza di limiti che porta Giovannino a vivere come se fosse privo di paura, mentrè è in realtà privo di pensiero. (AG) |
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I
desideri ridicoli Veliero della maledizione Quadrante nord-est |
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Questa fiaba entra a far parte di Fabulando anche se non vi sono genitori né figli, perché il tema della successione può essere rappresentato dalla relazione fra una figura magica, una divinità in questa versione, una fata in molte versioni popolari, che interpreta un personaggio potente come il genitore, e un personaggio debole, come il figlio. Giove, sovrano dell'olimpo, si presenta a un povero taglialegna perseguitato dalla sfortuna, e gli garantisce che soddisferà tre dei suoi desideri. Come nella fiaba di Giovannino è rimossa la paura, qui è rimosso il rischio di poter realizzare qualunque desiderio, senza limitazione alcuna. Il taglialegna torna dalla moglie e le dice cosa gli è successo, poi esprime la voglia di una salciccia, che subito gli appare nel piatto. La moglie si infuria contro di lui perché ha sprecato così un desiderio, e lui nella collera esclama: ti si attaccasse al naso! Non resta che l’ultimo desiderio, ma l’uomo si chiede se sia meglio diventare re con una regina in quelle condizioni, o restare povero con una moglie graziosa. Se osserviamo la figura vediamo come la salsiccia costituisca una grottesca appendice fallica, che, causata dalla lite fra i due coniugi, sparisce grazie al loro accordo. Desideri sprecati, certo, ma forse tutt’altro che ridicoli. E poi il desiderio, che nasce dalla mancanza, è realizzabile se alla mancanza succede un limite. Il tutto esclude il desiderio, anche nella sua magica realizzazione. Forse per questo gioco fra una creatura dell'ultramondo, sia una fata o un'antica divinità, e un piccolo povero mortale, che dice del desiderio con una particolare finezza psicologica, Freud notò la storia abbastanza da citarla nella sua opera due volte nel 1919. E se la rapida semplicità dei tre ridicoli desideri fosse illusoria, come quella dell’enigma della Sfinge, alla quale rispose Edipo? Come i desideri possono essere esauditi, ma non esauriti, così i segreti si lasciano svelare, ma solo nell'istante in cui si velano nuovamente. (AG) |
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Così
finì il tonto Bivio del compito possibile Quadrante sud-est |
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Il tonto nelle fiabe ha due destini opposti, come l’attante privo di paura, e la differenza dipende dalla sua relazione col genitore: il suo destino è felice se il genitore, dopo aver inutilmente cercato di educarlo, lo caccia, infelice se il genitore, di solito, come in questa fiaba, la madre, fa di tutto per compensare la sua mancanza di buon senso con istruzioni precise, che nelle sue intenzioni sarebbero sufficienti a proteggerlo dai rischi della vita, e nella realtà diventano la sua condanna a morte, come in questo caso, o alla esclusione: è il caso di Vardiello, fiaba narrata da Basile nel Pentamerone, che per la sua bizzarria viene in possesso di un piccolo tesoro, ma che la madre pensa bene di far chiudere in manicomio per evitare che lo perda. Si confronti questa madre con la madre de La favola dell’orco, o col padre de Lo scarafaggio, il topo e il grillo. La soggettivazione, l’umanizzazione, possono avvenire felicemente anche con le premesse più sfavorevoli, a patto che l’attante protagonista si trovi a scegliere il suo cammino, sperimentando il rischio di perdere tutto, vita compresa. La fiaba non è scioccamente ottimista, non dice che tutti possono crescere, ma che in qualunque condizione si può crescere, a patto che il soggetto si muova autonomamente, che scelga il proprio cammino, o il proprio rifugio, o il modo di portare a termine un compito. Dice solo che nessuna condizione sfavorevole è tale da escludere una via d’uscita, a meno che l’attante parentale non pensi di potersi sostituire al figlio quando questo appare incapace. Il genitore che cerca di rimuovere con la sua azione gli ostacoli che il figlio non sa affrontare rappresenta un genitore che non riconosce il proprio limite: non constatando il parziale fallimento della sua educazione non permette al figlio di cercare attraverso l’esperienza la sua propria via d’uscita dal luogo delle origini, per entrare nella vita adulta. Nel caso del tonto ciò che manca è la consapevolezza della natura ambigua del linguaggio, perché il poverino manda a memoria ossessivamente le parole della madre e non si chiede quali siano le occasioni adatte a pronunciarle. In una ripetizione disperante viene picchiato per quel che dice, che sarebbe stato adatto in un’occasione diversa, ed è pronto a mandare a memoria le istruzioni di tutti, come quelle della madre, fallendo regolarmente. La morte gli viene dalla collera di un fabbro, umano discendente del dio del fuoco che forgia i metalli, figura maschile che significa l’abilità umana di trasformare la natura, opposta quindi al povero tonto che è totalmente dipendente dalla madre, intendendo la parola solo nel suo significato letterale. (AG) |
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Fiore e
Gambodifiore Bosco dell'esilio Quadrante sud-ovest |
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Fiore e Gambodifiore, due bellissimi fratelli, sono cacciati di casa perché la matrigna non sopporta che siano così belli mentre sua figlia è brutta. Si racconta in questa storia che la madre naturale è morta e il padre si è risposato con una donna che perseguita i due ragazzi. Possiamo leggere questo inizio, comune a molte fiabe (pensiamo a Cenerentola), come la narrazione di qualcosa che è difficile da esprimere: la compresenza di sentimenti di amore e di aggressività nei confronti della figura genitoriale materna. Nella fiaba questo miscuglio viene separato e così agiscono da una parte un attante materno donatore, che all’inizio della storia muore, ma può tornare in forma di fata (proprio come in Fiore e Gambodifiore), e un attante materno persecutorio, che è quello che prende lo spazio narrativo e con il quale gli attanti filiali devono confrontarsi per poter diventare adulti e quindi autonomi, in una parola per poter raggiungere il loro lieto fine. Nella nostra fiaba l’attante protagonista è femminile e l’ingiunzione è materna, siamo infatti nel quadrante sud ovest, e si tratta del Bosco dell’esilio perché è l’allontanamento violento dalla famiglia che dà il via all’avventura di Fiore e di suo fratello. Ma perché i due vengono cacciati di casa? Cos’è che scatena questo evento, visto che entrambi sono belli fin dall’inizio? La storia ci racconta che un giorno accade qualcosa: mentre sono alla fontana a prendere l'acqua, i due ragazzi incontrano dodici fate che chiedono loro un po’ della focaccia che stanno mangiando. Allora Fiore ne fa dodici pezzi e li distribuisce alle fate, senza tenerne per sé o per il fratello neanche un bocconcino. Le fate ricambiano questa generosità facendo tre doni alla fanciulla: che le sboccino fiori sulle labbra ogni volta che parla, che le scendano cascate di perle d’oro ogni volta che si scioglie le trecce, che possa sposare il figlio del re. Se la madre buona è morta e la casa è in balia di una matrigna invidiosa, può accadere di incontrare un femminile materno potente, che può essere alleato o nemico. E la storia ci racconta che, se lo si onora, si può avere qualcosa di prezioso in cambio. Quando infatti i due fratelli si trovano a vivere da soli, i fiori che sbocciano sulle labbra della fanciulla sono la loro fonte di sopravvivenza e il motivo per cui Fiore conosce il re che, affascinato dalla sua bellezza, le chiede di sposarlo. Ma Fiore non ha fatto ancora i conti con la matrigna e il suo lieto fine è ancora lontano. Proviamo a esplicitare quanto la fiaba mette in narrazione a questo proposito. Dicevamo prima del miscuglio di amore e aggressività che è presente nel rapporto con la figura materna. Se la madre buona morta e le fate rappresentano l’amore, la matrigna rappresenta l’aggressività. E se nella realtà in questa relazione è praticamente impossibile sbrogliare la matassa dei sentimenti, tanto sono intricati e uguali quelli dell’una e quelli dell’altra, nella fiaba la figlia è buona e la matrigna è cattiva e su di lei è collocata l’aggressività insita nel movimento con cui la figlia si stacca dalla madre. Perché se separarsi dalla madre, e dalla famiglia, è necessario per formarsi come soggetti capaci di trovare il proprio posto nel mondo, è vero però che questa separazione è dolorosa: significa distaccarsi anche dalla sensazione di sentirsi al sicuro e di avere qualcuno nel quale potersi rispecchiare. Certamente quel senso di protezione è ideale e quel rispecchiamento comporta l’adesione incondizionata ad un modello (quello materno) dal quale è vietato scostarsi, ma è ciò con cui la figlia è cresciuta, è ciò che conosce di sé e del mondo. Come rinunciarci? Eppure la spinta ad allontanarsi e trovare la propria strada è irrefrenabile, e questo fa nascere nella fanciulla la percezione di un’aggressività connaturata a quel desiderio: deve seguirlo? deve contrastarlo? E se da una parte la figlia sente il distacco come un atto aggressivo nei confronti della madre, dall'altra è come se proiettare quell’aggressività sulla figura genitoriale aiutasse la fanciulla a tollerare la difficoltà del distacco e le fornisse la spinta necessaria a uscire. Ecco, possiamo dire che la fiaba mette in narrazione questo complesso di sentimenti profondi e di solito senza parola. Dopo essere stata cacciata di casa, ma in procinto di sposare il re, Fiore subisce un’altra angaria della matrigna e finisce rapita dalla Sirena del mare, mentre la sorellastra brutta prende il suo posto: Fiore non è ancora pronta per l’autonomia e deve vivere per un tempo con un essere magico e potente che la vuole tutta per sé. Ancora una volta si tratta una figura di tipo materno, e infatti in altre versioni dialettali della fiaba, fra le quali Cicerone (vedi in Internet Archive), raccolta a Palermo da Giuseppe Pitrè, la fanciulla si rivolge alla Sirena chiamandola esplicitamente “madre”. Perché la storia possa giungere ad un finale felice, è necessario allora che si attivi Gambodifiore che di nuovo fa da tramite fra la sorella e il re. Di nuovo i doni delle fate si rivelano utili perché le perle d’oro che scendono dai capelli di Fiore sono il cibo impossibile di cui si nutrono le papere del re che, come le comari, tornando a palazzo parlano della bellezza della fanciulla. È così che il re viene a sapere cosa è accaduto e libera Fiore, non solo grazie al fatto che affronta coraggiosamente la Sirena del mare, ma anche perché la fanciulla gli dice come fare. Soffermiamoci un poco su questo punto: lui è l’esecutore materiale della liberazione di Fiore e senza di lui, la fanciulla sarebbe ancora là, sulla riva del mare, prigioniera della Sirena. Ma lui non saprebbe da dove cominciare se lei non gli fornisse le giuste indicazioni. La fiaba racconta che quando una fanciulla si trova a dover affrontare un materno persecutorio, soprattutto se è così potente come la nostra Sirena, un attante maschile può agire per aiutarla, lasciandosi però guidare da lei che deve attingere alla sua conoscenza per affrancarsi, e vivere finalmente felice e contenta con il suo sposo. (CC) |
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Lo
scarafaggio, il topo e il grillo Bosco dell'esilio Quadrante nord-est |
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Ogni fiaba può essere letta a diversi
livelli, e a ogni livello un senso si svela. Può essere
interpretata in chiave psicoanalitica, sia freudiana,
sia junghiana, sia kleiniana, sia lacaniana. Sembra
docile all’interpretazione, con l’umiltà di una forma
secolare che all’entusiasta ermeneuta si presenta come
se fosse sempre stata in attesa di quella particolare
interpretazione. Non c’è alcun danno possibile, perché
la straordinaria vitalità di questa forma narrativa non
ha alcun rapporto di dipendenza dalle interpretazioni, e
ogni lettura può avere un senso se si esercitano le
proprie competenze, più o meno ampie, senza essere
troppo sicuri del proprio esercizio e della propria
teoria di riferimento. Chi tenti di costringere la
complessità della fiaba in un’interpretazione,
illudendosi di esaurirne il senso, perde la fiaba
stessa, che scivola via fra le maglie dell’esercizio
ermeneutico, e scompare. Per la fiaba, come per la
poesia e il sogno notturno, occorre percepire la loro
fonte segreta, che nel momento in cui rivela la propria
presenza si sottrae all’interpretazione (vedi
anche: Adalinda
Gasparini, Se le metafore giocano. Fiaba e
psicoanalisi, 2010). Sperando di resistere a questa tentazione,
che per impadronirsi del senso lo perde, proponiamo la
nostra lettura de Lo
scarafone, lo sorece e lo grillo, una fra le fiabe
più belle della raccolta di Basile, certo la più
esilarante. Si racconta di un mercante con un solo
figlio, così sciocco e perdigiorno che gli ha già
consumato metà del patrimonio, fra giochi d’azzardo,
osterie e donne di malaffare, che lo prendono in giro e
gli spillano quattrini. Dopo aver cercato di fargli
entrare in testa un po’ di buonsenso con discorsi
assennati, il padre lo manda al mercato di Salerno con
cento ducati, perché compri dei vitelli con i quali
cominciare un allevamento che promette di essere tanto
redditizio da arricchirlo al punto che potrà anche
comprarsi un titolo nobiliare. La prima volta Nardiello, il nostro attante
protagonista, si mette in cammino, ma poco lontano da
casa vede una fata che si diverte con uno scarafaggio
che suona una chitarrina meglio dei più acclamati
musicisti del suo tempo. Preso dal desiderio di averlo,
Nardiello lo ottiene per cento ducati, e certo di aver
fatto un buon affare lo mostra al padre, che non vedendo
altro che un insetto non gli dà nemmeno il tempo di
descriverne il virtuosismo, e dopo avergliene dette di
tutti i colori gli dà altri cento ducati. Anche stavolta
però Nardiello si innamora di un virtuoso topolino che
danza con perizia e grazia impareggiabili, e la fata
glielo cede per cento ducati, e di nuovo il padre non
vede altro che un sorcio, ma gli dà per la terza volta
la stessa somma per comprare bestiame da allevamento,
facendogli un’altra predica e minacciandolo di farlo
pentire d’esser nato se ripeterà lo stesso errore. Ma
anche questa volta Nardiello compra da una fata un
animaletto, un grillo canterino che ha una voce
meravigliosa, e il padre passa dalle parole ai fatti e
lo bastona senza pietà. L’educazione è fallita, e
Nardiello si trova costretto a lasciare la casa e si
mette in cammino così, delegittimato dal padre, con la
sola ricchezza dei suoi tre artisti in miniatura. Quando sente che un re ha promesso la
figlia, che non ride da sette anni, a chi sia in grado
di farla ridere, tenta la prova, anche se il re gli dice
che se fallirà perderà la testa. La performance dello
scarafaggio musicista, del topo ballerino e del grillo
canterino provoca il riso della principessa melanconica,
e la costernazione del re, che non vuole un genero così
miserabile. Gli impone quindi un’altra prova: se non
consumerà il matrimonio in tre giorni, dovrà morire. “N’aggio
paura”, disse Nardiello, “ca fra sto tiempo sono ommo
da consummare lo matremonio, figliata e
tutta la casa toia!” (e-book,
p. 45) Ma non accorgendosi che il re per tre sere
alloppia il suo vino, Nardiello dorme e invece del
matrimonio con la principessa gli tocca la fossa dei
leoni. Vedendosi in punto di morte apre la scatolina
dove tiene lo scarafaggio, il topo e il grillo, e dice
loro che vuole lasciarli liberi. L’arte cura la malinconia: da sempre la
musica è considerata un rimedio contro l’antico male,
che corrisponde in qualche modo all’odierna depressione,
e del resto l’arteterapia gode tutt’oggi di un certo
credito. Nella nostra fiaba sono i tre minuscoli artisti
a permettere al disadattato scialacquatore Nardiello di
riuscire dove tutti gli altri avevano fallito, anche se
questo lo ha portato nella fossa dei leoni.
Insignificante per il senso comune, che un ministro
italiano ha personificato dichiarando che con Dante non
si mangia, sottovalutata dal re, rappresentante della
legge, l’arte può apparire trascurabile, nonostante sia
ciò che sopravvive attraverso secoli e millenni, quando
dei sovrani e dei mercanti che non ne hanno riconosciuto
il valore si è persa completamente la memoria. Ma anche
chi la possiede, come Nardiello che tiene i suoi magici
aiutanti chiusi in una scatolina, non ha nessuna
garanzia di successo. Fino a quando, racconta Basile in
questa magnifica fiaba, non libera l’arte stessa, perché
viva oltre la sua morte. Non più posseduti da una fata o
da un vagabondo condannato a morte, lo scarafaggio, il
topo e il grillo per la prima volta parlano, per dire a
Nardiello che intendono ricompensarlo, perché li ha
acquistati dando tutto ciò che aveva, li ha custoditi e
nutriti amorevolmente, e infine ha fatto loro dono della
libertà. Detto questo, ripetono la loro performance, e
se prima hanno curato la malinconia, ora ammansiscono i
leoni, che si immobilizzano, incantati. La loro arte
ripete la magia di Orfeo, l’artista per eccellenza nella
mitologia greca. Mentre i leoni stanno fermi come tante
statue, gli animaletti fanno evadere Nardiello, lo
guidano in un rifugio sicuro, e gli chiedono cosa
possono fare per lui. Se il re ha fatto sposare la
figlia a qualcuno, Nardiello vorrebbe che anche a lui
fosse impedito di consumare il matrimonio, che
consumerebbe la sua stessa vita. Qui comincia l’impresa scatologica dei tre
animaletti fatati, la cui magia è fatta di astuzia e di
azioni che in qualche modo corrispondono alle loro
abilità fisiche, di restare invisibili grazie alle loro
piccole dimensioni, di non rifuggire dallo sporco, di
rodere, e allo stesso tempo di ricorrere alla loro
perizia artistica. Siccome il re ha fatto sposare la figlia con
un gran signore tedesco, che dopo la festa di nozze si
addormenta della grossa, lo scarafaggio gli fa da
supposta: La
zita, che ’ntese lo squacquerare de lo vesenterio,
“l’aura, l’odore, il refrigerio e l’ombra”, scetaie lo
marito. (Ibid., p. 58-60). Lo scarafaggio guastatore trasforma l’alcova
regale in un nauseabondo palcoscenico, e a niente vale
nella seconda notte la difesa dello sposo, che barrica
l’orifizio anale con una trincea di fasce, panni e
mutande. Se lo scarafaggio non può fare lo stesso
servizio, il topo provvede a rosicare la trincea
aprendogli un varco, e l’insetto: fece
n'autra cura medecinale de manera che fece no maro de
liquido topazio e l'arabi fumme 'nfettarono lo
palazzo. Pe la quale cosa scetatose l'ammorbata zita
ed, a lo lummo de na lampa visto lo delluvio citrino
c'aveva fatto deventare le lenzole d'Olanda tabiò de
Venezia giallo onniato, appilandose lo naso foiette a
la cammara de le zitelle e lo nigro zito, chiammanno
li cammariere, se fece na longa lammentazione de la
disgrazia soia, che con fonnamiento accossì lubreco
aveva commenzato a fermare le grandezze de la casa
soia. (Ibid., pp. 64-66) Per la terza notte lo sposo sbarra l’entrata
con un tappo di legno fatto su misura, e si prepara a
vegliare per non perdere il controllo. Ma il grillo col
suo canto irresistibile lo addormenta, e se non c’è modo
di rimuovere l’ostacolo il topo pensa bene di andare a
intingere la coda in un vaso di mostarda, per poi
passarla e ripassarla sotto il naso del malcapitato
tedesco: …lo
quale commenzaie a sternutare accossì forte che
sbottaie lo tappo co tanta furia che, trovannose
votato de spalle a la zita, le schiaffaie 'm pietto
accossì furiuso che l'appe ad accidere. Il re scaccia il gran signore tedesco, e
pensando che questo disastro è derivato dalla sua
ingiusta condanna a morte di Nardiello, si dispera. Lo
consolano gli animaletti, che il sovrano pentito ascolta
ben volentieri quando gli rivelano che il legittimo
pretendente è vivo e che lo possono condurre da lui. Lo
trasformano in un bel giovane, degno sposo della
principessa e da allora vivono tutti felici e contenti,
anche il padre mercante che viene invitato a condividere
il lieto fine. Possiamo pensare che se lo merita, perché
ha riconosciuto il fallimento della sua educazione,
costringendo il figlio a trovare una strada che lui non
avrebbe potuto nemmeno sognare. Basile dedica oltre un terzo della fiaba
all’operazione scatologica e bellica dei tre animaletti,
nella quale agiscono per amore di chi li ha amati fino
alla fine, portandolo a vincere tutti i suoi avversari.
L’arte vince il comune buon senso, personificato dal
padre di Nardiello e la legge personificata dal re. I
tre minuscoli artisti mettono in fuga il gran signore
tedesco, sostenuto da un seguito di servitori, medici e
consiglieri, anche militari – il tappo è suggerito da un
giovane bombardiere. Per chi sia disposto a
riconoscerlo, l’arte vince il buon senso e la
prepotenza: accade in questa fiaba, e torna ad accadere
ogni volta che la leggiamo. L'Italia possiede ne Lo cunto de li
cunti o Pentamerone del Basile il più
antico, il più ricco e il più artistico fra tutti i
libri di fiabe popolari; com’è giudizio concorde dei
critici stranieri conoscitori di questa materia. (Vedi
in: Basile
1974, vol. I, p. XXVII) Così Benedetto Croce introduceva nel 1925 la
sua traduzione, la prima in italiano, e tutt’oggi la più
bella, del capolavoro di Basile. L’edizione del 1974 era
arricchita da un’introduzione di Italo Calvino, che non
aveva mai letto l’originale di Basile: “Del resto è d’un
libro di Basile-Croce che sto parlando, perché non
conosco il primo che attraverso il secondo”. (Ivi, vol.
I, p. V). Presentando le sue Fiabe italiane,
uscite nel 1956, Calvino definiva Lo cunto de li cunti
come …il
sogno d'un deforme
Shakespeare partenopeo,
ossessionato da un fascino dell’orrido per cui non
ci sono orchi né streghe che bastino, da un gusto
dell’immagine lambiccata e grottesca in cui il
sublime si mischia col volgare e il sozzo.
(Calvino
1968, vol. I, p. 7). L’accostamento a Shakespeare
coglie la stupefacente abilità linguistica di
Basile, che raggiunge uno dei suoi apici nella fiaba di
cui stiamo parlando, proprio nell’impresa scatologica
dei tre animaletti fatati. Giocoliere della lingua e
delle narrazioni, che muove nella stessa pagina il
lessico militare, scatologico, amoroso e i versi di
Petrarca, provocando la risata e l’ammirazione del
lettore, Basile
lancia e riprende i suoi attrezzi alla perfezione, e il
piacere che ci offre mette in scena le infinite risorse
della lingua. Lo cunto de li cunti è opera
partenopea, ma se la lingua nella quale è stato scritto
è pressoché incomprensibile oggi, il suo influsso
sull’immaginario fiabesco italiano, europeo e mondiale
ne attesta il valore universale. Quanto alla qualifica
di deforme, la possiamo accettare se la
attribuiamo all’essere umano in genere, nella cui vita
il sublime e il sozzo non solo si mescolano
regolarmente, ma affondano le radici nello stesso
terreno. Ed è proprio questa irriducibile complessità
linguistica e narrativa ad avvicinare Basile a noi,
quando la nostra identità appare indebolita, perché
nessuna ideologia salvifica pare più in grado di
puntellarla. Potremmo somigliare proprio a Nardiello e ai
tanti attanti fiabeschi che si devono mettere in cammino
privi di qualunque delegittimazione, quando accettiamo
la ferita narcisistica inferta dalla disillusione sulla
nostra possibilità di padroneggiare noi stessi. L’io
non è padrone in casa propria, come ci ha
insegnato Freud,
ma fuori dalla casa delle origini ci si può farci
innamorare di una bambola, come la protagonista della Bambola Popoavola, o di
tre animaletti artisti. Ci si può trovare a correre il
rischio radicale di seguire il proprio desiderio, che
raramente si presenta in accordo col buon senso, e
appare radicalmente divergente dalle ingiunzioni
parentali e sociali. Ma è attraverso il desiderio che
emerge il gusto della vita. Il sognatore scrittore Giambattista
Basile non ha conquistato un trono come Nardiello,
né la sua arte gli ha reso facile l’esistenza. Ma la sua
creatura, la sua raccolta di fiabe, dotata com’è della
magia dell’arte, viaggia nello spazio e nel tempo,
coprendo distanze superiori a quelle che il loro autore
avrebbe mai potuto sognare. Riconoscere la magia dell’arte significa
comprendere che l’arte è nella cultura umana il
germoglio, la sola forma di immortalità alla quale
l’uomo possa aspirare, che richiede la rinuncia al
possesso della propria stessa creatura (vedi anche il Lago della generazione). Grazie a questa magia i cunti di Basile vivono ancora, con Nardiello, la principessa, il re e il mercante felici e contenti, senza dimenticare lo scarafaggio chitarrista, il topo ballerino e il grillo canterino. (AG) |
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Giovannino
e la pelle d'oca Bosco dell'esilio Quadrante nord-est |
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La prima versione di questa fiaba fu pubblicata la prima volta a Venezia nel Cinquecento, nella raccolta di fiabe e novelle Le piacevoli Notti. È la quinta storia della quarta Notte, e l'abbiamo intitolata Flamminio senza paura. Così apre il racconto l'autore della raccolta, Giovan Francesco Straparola: In Ostia, antica città non molto lontana da Roma, sí come tra volgari si ragiona, fu già un giovane, piú tosto semplice e vagabondo che stabile ed accorto, e Flamminio Veraldo era per nome chiamato. Costui piú e piú volte aveva inteso che nel mondo non era cosa alcuna piú terribile e piú paventosa de l’oscura ed inevitabile morte, perciò che ella, non avendo rispetto ad alcuno, o povero o ricco che egli si sia, a niuno perdona. Laonde pieno di maraviglia, tra sé stesso determinò al tutto di trovare e vedere che cosa è quello che da’ mortali morte s’addimanda. Flamminio parte in cerca della morte, e quando stremato per il lungo cammino incontra una brutta vecchia crede che sia la morte, invece si tratta della vita. Sentendo la sua richiesta, di conoscere la morte, la brutta vecchia vita gli taglia la testa, e poi gliela riattacca volta all’indietro, come nella tradizione ricordata da Calvino. Onde Flamminio, guattandosi le spalle, le reni e le grosse natiche e scolpite in fuori, che per a dietro vedute non aveva, in tanto tremore e pavento si puose, che non trovava luoco dove celare si potesse, e con dolorosa e tremante voce diceva alla vecchia: – Ohimè, madre mia, ritornatemi com’era prima, ritornatemi per lo amore de Iddio, perciò che io non vidi mai cosa piú diforme né piú paventosa di questa. Deh, removetemi vi prego da questa miseria, nella quale inviluppato mi veggio. Dopo averlo lasciato bollire nel suo brodo per qualche tempo, la cara vecchia vita gli ristacca e gli riattacca la testa volta in avanti, e Flamminio: avendo veduta la paura e per isperienza provato quanto brutta e paventosa era la morte, senza altro commiato prendere dalla vechiarella, per la piú breve e ispedita via ch’egli seppe e puoté ad Ostia se ne ritornò, cercando per lo innanzi la vita e fuggendo la morte, dandosi a miglior studi di quello che per lo a dietro fatto aveva. Noi conosciamo la paura da quando sappiamo che esiste la morte, quindi smettiamo di cercarla. La morte, insieme alla nascita, è la sola cosa che riceviamo senza cercarla. Questa fiaba può essere letta come uno splendido flash, per chi voglia scorgere la realtà umana che illumina, anche sulla tendenza a correre rischi concretamente inutili, a varcare confini rischiando la vita. Possiamo perdere la vita cercando la morte, ma quel che dobbiamo incontrare per vivere è il senso del limite. Vedere la morte vicina, percepirne il terrore, può costituire una spinta vitale a dedicarsi a migliori studi, a faccende più promettenti, come accade a Givannino/Flamminio. La versione cinquecentesca della fiaba è la miglior introduzione alla variante popolare della storia variante altrettanto popolare, che presenta motivi analoghi, come la permanenza notturna nel castello abitato da fantasmi dove tutti quelli che hanno, presente in tutta Europa, che qui proponiamo nella versione di Wilhelm Grimm, pubblicata nel 1818: Märchen von einem, der auszog, das Fürchten zu lernen. Come il Giovannino/Flamminio di Straparola qui l’attante protagonista, ignorando la paura e la morte, si mette in cammino per cercarla, mentre il Giovannino della versione rinarrata da Calvino semplicemente vaga per il mondo, senza una meta. A differenza degli altri, il Giovannino di Calvino non ha paura, non conosce la morte, e non si rende conto che gli manca qualcosa di talmente importante che deve cercarlo, senza mai smettere. Al Giovannino di Grimm non basta nemmeno sposare la figlia del re: nella sua regale condizione continua a lamentarsi perché non conosce la pelle d’oca, il brivido che attesta la percezione di qualcosa di unheimlich, intimo ed estraneo allo stesso tempo, come il rimosso, sia la propria ombra, sia il proprio posteriore. Come la vita, la brutta vecchia vita nella favola cinquecentesca, è una figura femminile a fargliela sperimentare, con un colpo altrettanto magistrale, per quanto più semplice e niente affatto magico. La principessa, come si racconta, era comprensibilmente infastidita dal marito che si lamentava di continuo per il desiderio di provare la pelle d’oca, e la sua cameriera provvide degnamente: Allora la cameriera le disse: «Proverò ad aiutarlo ad imparare cos'è la pelle d'oca». Andò giù al ruscello che scorreva attraverso il giardino e si fece portare un secchione pieno di ghiozzi. La notte, quando il reuccio dormiva, sua moglie tirò via la coperta e gli versò addosso il secchione pieno d'acqua fredda e di ghiozzi, così che i pesciolini gli si dimenavano intorno. Egli si svegliò e gridò: «Ah, che pelle d'oca, cara moglie! Sì, adesso so cos'è la pelle d'oca!». Così finisce la favola, di cui si presenta nell’e-book la traduzione italiana fatta in carcere da Antonio Gramsci, non con le nozze regali, perché il desiderio che ha messo in movimento il protagonista era sperimentare la paura, non sposare la figlia del re. Il lieto fine è la realizzazione del desiderio che ha messo in moto l’attante protagonista, e con lui il racconto, in ogni fiaba. Nella versione di Grimm vale la pena osservare che quando l’attante protagonista sta per entrare nel castello stregato chiede e ottiene dal re alcuni strumenti: del fuoco, un tornio e un banco da falegname col coltello. Forgiare i metalli, costruire strumenti, piegare la materia per costruire utensili, armi, recipienti, è l’atto fondante della civiltà umana. Giovannino qui chiede e ottiene di essere fornito degli strumenti stessi della cultura, usando i quali riuscirà a contenere e sconfiggere le forze sovrumane e mortifere del castello stregato. Chi ignora il rimosso, chi non sa che qualcosa lo segue, muovendo gli stessi suoi passi, anche se non ne sa nulla, come il Giovannino della versione scelta da Calvino, soccombe alla sua prima incursione, nella lacerazione che il reale innominabile produce nel continuum dell’esperienza del soggetto. E’ la stessa lacerazione dell’incubo notturno, che ciascuno di noi sperimenta senza averlo scelto, e senza poterlo ricusare. Se Calvino si pone, scegliendo e commentando come abbiamo visto il suo Giovannino come apertura della sua raccolta, possiamo dire che la sua posizione punta a un rafforzamento della rimozione. Raccontare ai bambini questa fiaba li allieta perché loro, che non entrerebbero mai di notte e da soli in un castello infestato dai fantasmi, né accetterebbero di farsi tagliare la testa, anche se chi lo propone garantisce che gli verrà riattaccata senza danni, sono superiori a Giovannino non avendo affatto paura della propria ombra. La versione di Wilhelm Grimm, e tutte le versioni popolari che le somigliano, come la favola cinquecentesca che abbiamo ricordato, raccontano invece che la paura, il terrore che ha la morte come comun denominatore, non solo è legittimo, ma necessario. (Vedi anche: Adalinda Gasparini, La fiaba, la morte, la paura: un fuoco, un tornio, un banco da ebanista, 1994) Questa fiaba ha come ingiunzione il Bosco dell'esilio perché il cammino di Giovannino comincia quando il padre lo caccia di casa delegittimandolo. Figura nel quadrante nord-est perché sono maschili sia l'attante protagonista che la figura genitoriale che lo misconosce e lo esilia costringendolo a partire da casa. (AG) |
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La fiaba
dell'orco Bosco dell'esilio Quadrante sud-est |
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C’è in questa fiaba, la prima de Lo cunto de li
cunti, un giovane sciocco e perdigiorno, un
po’ fratello dell’attante protagonista della fiaba
umbra Così finì il
tonto, un po’ di Nardiello de Lo scarafaggio,
il topo e il grillo, e un po’ di Pietropazzo.
Mentre loro sono figli unici, lui ha sei sorelle, che,
non avendo dote, non possono maritarsi, e nonostante la
madre gliene dica di tutti i colori non combina nulla di
buono, tanto che lei un giorno lo caccia di casa a
bastonate. L’ingiunzione è quindi il Bosco
dell’esilio, nel quadrante sud-est.
Anche la fiaba umbra si trova nello stesso
quadrante, ma comincia con l’ingiunzione del Bivio del
compito possibile, perché il tonto
non viene cacciato dalla madre, che gli assegna un
compito semplice mettendogli in bocca le parole perché
non combini guai. Senza mai incontrare una figura
paterna, magica o regale, che lo spinga nella vita, il
povero tonto alla fine muore, come Giovannin senza
paura al quale nessun compito
sembrava difficile o spaventoso. Anche Pietropazzo ha una madre che
non perde la speranza che il figlio faccia una buona
pesca, ma non cerca di istruirlo, e lui, incontrando un
aiutante magico e un re che lo condanna a morte, si
ritrova finalmente bello a sposare la principessa.
Nardiello invece un padre ce l’ha, mentre al posto della
madre incontra tre fate, alle quali dà tutto ciò che ha
per comprare gli animaletti magici; scacciato dal padre
che non lo sopporta più, conquista e perde la
principessa come Pietropazzo,
e come lui viene condannato a morte dal re, ma
finalmente diventa bello e sposa la principessa.
Tontonio, così abbiamo chiamato il
protagonista de Lo
cunto dell’uerco nella nostra traduzione, fugge da
casa sua per evitare che la madre lo ammazzi di botte, e
non si ferma finché non si trova davanti a un orco. Ma
non è proprio l’orco cannibale delle fiabe più famose, è
piuttosto una creatura ultramondana, discendente isolato
dei fauni e dei satiri che popolavano le terre incolte
nell’antichità, messi da parte con la netta divisione
fra angeli e diavoli, rispettivamente buoni, da seguire,
e cattivi, da fuggire. Nelle fiabe vivono ancora, uno di
loro, urbano, un po’ credulone, pieno di tenerezza
paterna e amico delle fate, si trova in Violetta;
qui ne abbiamo un altro, più selvatico, per l’aspetto
grottesco e per la sua dimora lontana dalla città, ma
altrettanto propizio all’attante protagonista. Era
chisso naimuozzo e streppone de fescena, aveva la capo
chiú grossa che na cocozza d’Innia, la fronte
vrognolosa, le ciglia ionte, l’uecchie strevellate, lo
naso ammaccato co doi forge che parevano doi chiaveche
maestre, na vocca quanto no parmiento, da la quale
scevano doi sanne che l’arrivavano all’ossa pezzelle,
lo pietto peluso, le braccia de trapanaturo, le gamme
a vota de lammia e li piede chiatte comm’a na papara:
’nsomma pareva na racecótena, no parasacco, no brutto
pezzente e na malombra spiccecata, c’averria fatto
sorreiere n’Orlanno, atterrire no Scannarebecco e
smaiare na fauza pedata. Ma Antuono, che non se moveva
a schiasso de shiónneia, fatto na vasciata de capo le
disse: « A
Dio messere, che se fa? Comme staie? Vuoie niente?
Quanto nc’è da ccà a lo luoco dove aggio da ire? ».
L’uerco, che sentette sto trascurso da palo ’m
perteca, se mese a ridere e, perché le piacquette
l’omore de la vestia, le disse: « Vuoi stare a
patrone? ». E Antuono leprecaie: « Quanto vuoie lo
mese? »; e l’uerco tornaie a dire: « Attienne a
servire ’noratamente, ca sarrimmo de convegna, e
farraie lo buono iuorno » (e-book,
pp. 12-14). A servizio dell’orco Tontonio non fa altro
che mangiare, e diventa molto grasso, ma dopo due anni
gli prende la nostalgia di casa, e allora dimagrisce e
deperisce paurosamente. Incapace di procurarsi di che
vivere, noncurante della miseria della madre e delle sei
sorelle, ora che il padrone lo nutre senza farlo
lavorare, Tontonio prova un sentimento che lo fa
soffrire. L’orco comprende cosa gli manca e nel
lasciarlo andare gli regala un somarello, ordinandogli
però di non dire “Arre cacaure” finché non arriva a
casa. L’orco dà un ordine sapendo che Tontonio non
obbedirà, e infatti, poco lontano dal suo padrone
pronuncia la formula magica: l’animale fatato evacua
perle, rubini, smeraldi e diamanti in quantità.
Incapace di distinguere fra quel che si deve
dire e quel che si deve tacere, come di lavorare per
vivere e di obbedire a un ordine, Tontonio si fa
sostituire da un taverniere l’animale magico, fratello
dell’asino magico che nella fiaba di Pelle d’asino
provvedeva alle spese del re padre dell’attante
protagonista. Arrivato dalla madre le promette una
ricchezza inesauribile, ma la povera bestia non reagisce
alla formula magica, e alle bastonate risponde con
un’evacuazione che riempie di escrementi tutta la casa.
Preso di nuovo a bastonate, Tontonio scappa e arriva di
corsa dall’orco, che lo rimprovera senza mezzi termini
ma lo riprende a servizio come la prima volta. Tontonio
di nuovo ingrassa, ma dopo un anno torna a dimagrire per
la nostalgia, finché l’orco lo rimanda a casa con un
tovagliolo, ordinandogli di non dire, se non quando sarà
a casa dalla madre, le parole “Aprete” e poi “Sèrrate
tovagliuolo”. Ancora una volta Tontonio pronuncia la
formula magica e scopre che il tovagliolo fornisce in
abbondanza cibi prelibati e preziose stoviglie, ma si fa
di nuovo infinocchiare dallo stesso taverniere, e
tornando dalla mamma non può mostrarle altro che un
comune tovagliolo. Delusa e incollerita la madre lo
caccia di casa ordinandogli di non rimetterci più piede,
e Tontonio torna dal suo padrone, che lo redarguisce
come merita. E ancora la storia si ripete, ingrassa per
tre anni senza far nulla, poi deperisce per la
nostalgia, e di nuovo l’orco lo lascia andare con un
terzo dono, avvertendolo che è l'ultimo:
Il motivo dei tre oggetti magici è molto
popolare in Italia e in Europa, mentre questo orco
"brutto de facce e bello de core" (ibid, p. 32), è
frutto della genialità di Basile, che unisce in sé la
freschezza e la vivacità delle fiabe popolari e l’arte
del letterato. Difficile non cedere alla tentazione di
interpretare i tre oggetti magici collegandoli alle fasi
libidiche descritte da Freud,
con una sola differenza: il tovagliolo, che rimanda alla
fase orale, segue il ciuchino cacadenari, che rimanda
alla fase anale. Interpretando il bastone come simbolo
fallico, osserviamo che solo quando possiede questo
oggetto magico Tontonio sa difendere quel che è suo,
recupera quel che aveva perduto e provvede largamente
alle necessità sue e della sua famiglia. In questa
chiave si potrebbe interpretare il finale, che non
comprende né la conquista di un trono né le nozze, ma un
felice ritorno con la madre, finalmente orgogliosa del
figliolo che per tre volte aveva cacciato a bastonate.
Al bastone della madre, al suo potere, subentra il
bastone del figlio, con reciproca soddisfazione, come se
il passaggio dalle fasi orale e anale alla fase fallica aprisse una
quieta latenza, lasciando ad altre storie obbiettivi più
ambiziosi. Questa interpretazione, convincente ma
piuttosto meccanica, può valere per tutte le fiabe che
contengono i tre oggetti, solo il terzo dei quali,
bastone o randello, permette di superare la condizione
di estrema povertà dell’attante protagonista. Nella versione di Basile però i tre oggetti,
che si vogliano o meno leggere come relativi alle tre
fasi dello sviluppo libidico, sono il tessuto sul quale
è ricamata la relazione fra Tontonio e l’orco, brutto di
fuori e bello di dentro. Si tratta di uno straordinario
educatore, figura paterna dotata di una pazienza, un
intuito e una generosità irrealistici quanto la pazienza
di Griselda nella centesima novella del Decameron, della
quale diciamo qualcosa a proposito della fiaba dell’Augel Belverde.
Come psicoanalista sarei tentata di riconoscere
nell'etica dell'orco qualcosa di psicoanalitico: conosce
e tollera la coazione a ripetere, accoglie chi gli si
trova di fronte, lo nutre e lo lascia andare quando il
suo desiderio lo porta ad allontanarsi. Forzando
l’interpretazione si potrebbe dire che gli oggetti
magici di cui fa dono a Tontonio ricordano l’efficacia
della relazione transferale, che permette di fare
esperienze che nella casa dell’origine non sono state
possibili. Transferalmente l’orco è sia maschio che
femmina, paterno nella misura in cui dà ordini e mette
Tontonio davanti alla sua dabbenaggine e alle
conseguenze negative che implica, materno per il cibo
che dà generosamente come una madre al suo lattante.
L’orco rispetta i tempi di Tontonio, comprende i suoi
bisogni, e gli permette di formarsi in sei anni come
soggetto, lasciando che mangi quanto vuole senza far
nulla, finché non emerge la nostalgia per la sua casa
che supera il desiderio di mangiare e oziare senza
limiti.
Quanto alla bruttezza, proprio per questo
l’orco potrebbe somigliare all’analista, che non è bello
come nessuna delle figure rassicuranti che vivono nella
città regolata dal comune buon senso, e perché ogni
movimento del paziente in analisi esige una disillusione
che lo fa soffrire. In questo senso, la domanda
insensata di Tontonio, che chiede all’orco quanto vuole
per prenderlo al suo servizio, potrebbe invere avere il
senso del pagamento spettante all'orco. Lo psicoanalista
può ben essere brutto quanto l’orco, ogni volta che nel
corso di questo solitario lavoro in coppia il paziente
si trova davanti a uno specchio nel quale vede qualcosa
di tanto brutto che ha fino a quel punto tentato in
tutti i modi di non vedere. Ma solo non continuando a
fuggire di fronte a questa particolare bruttezza si può
trovare qualcosa che si considerava inaccessibile o
ritrovare qualcosa che si credeva perduto per sempre. E
si può lasciare l’analista, come l’orco, nella sua
grotta ornata di pietra pomice. (AG) |
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Bambola
Popoavola Palude dei derelitti Quadrante sud-ovest |
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C'era dunque una magica poavola, che nella lingua italiana del Veneto cinquecentesco significa bambola. Un secolo dopo, scrivendo la sua grande raccolta, Giambattista Basile raccontò la stessa fiaba, ma al posto della bambola c’era un’oca (trattenemiento primmo de la iornata quinta). Forse il napoletano Basile non conosceva il significato del veneto poavola? A loro volta, due secoli dopo, i Fratelli Grimm rinarrarono la stessa favola, nella quale l’oca evacua oro e morde il sedere del re, anche se sembra decisamente improbabile che un servitore del re la scelga per fornire al re qualcosa per nettarsi, e ancora più improbabile che un’oca viva sia rimasta nella spazzatura dove l’ha gettata la vicina invidiosa. Ma nelle fiabe può succedere questo ed altro, e il fraintendimento ha fatto sparire la bambola originaria ma non ha tolto nulla della grazia di questa fiaba, particolarmente gradita ai bambini in età prescolare per la marcata coprolalia. Ritrovando la bambola, immagine dell’identità dell’attante protagonista, e aiutante decisiva della sua felice crescita, rileggiamo le ultime righe di Straparola, che ci racconta come la poavola scomparisse quando tutto era andato per il meglio, non si sa come: "Ma giudico io che si disfantasse come nelle fantasme sempre avenir suole." Sfugge a uno sguardo superficiale che la magia nelle fiabe ha una rigida disciplina, anzitutto perché le fiabe iniziano e finiscono in un orizzonte umano, così come sono totalmente umani i loro attanti protagonisti, anche se possono avere una stella in fronte. La magia si manifesta in mille modi cangianti, ci sono tanti motivi, ereditati da miti antichi e riproposti nella narrativa e nel cinema contemporanei, ma alla fine l'attante protagonista non ha più bisogno della fata, l'oggetto magico non è più nelle sue mani, la strega è vinta, l'orco è lontano, la maledizione che lo imprigionava nella forma di una bestia non tornerà, perché l'incantesimo è sciolto. Quando la vicenda si compie, gli esseri magici si dissolvono, per poi tornare in un'altra fiaba, magari in forma di oca. Si disfantano, come racconta Straparola, come il terrore o la piena gioia di un sogno notturno, come le ombre della notte che ci spaventano nel buio da bambini, perché sono fatti della stessa sostanza dei sogni. Una sostanza che alla fine si rivela intima alla nostra, senza per questo confondersi con l'orizzonte concreto, quotidiano, con la realtà comune a tutti. Per fortuna a volte si addensano e ci segnalano un rischio, o vengono in nostro aiuto, per un tempo breve, delimitato come un sogno notturno o il racconto di una favola. L’ingiunzione di questa fiaba è la Palude dei derelitti perché la narrazione prende avvio dall’estrema povertà dell’attante protagonista e della sorella, che diventa rischio di morire di fame a causa della morte della madre, unico genitore. Si iscrive nel quadrante sud-ovest perché l’attante protagonista è femminile. (AG) |
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La
bambola smarrita Palude dei derelitti Quadrante nord-ovest |
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A nord-ovest, nella Palude
dei derelitti, troviamo una curiosa fiaba
piemontese: La bambola smarrita. Ciò che la rende
particolarmente curiosa è il fatto che storia della
fanciulla che viaggia per il mondo vestita da uomo alla
ricerca della propria bambola è intrecciata ad un’altra
storia: quella del pappagallo che grazie alla propria
narrazione fa sì che la regina rimanga fedele al re. Una
storia nella storia, dunque, di lontana derivazione
orientale e misteriosamente giunta nella tradizione orale
dei dialetti d’Italia (versioni di questa fiaba si trovano
in Sicilia, in Toscana, in Sardegna e in Calabria). Come
sia accaduto non lo sappiamo, sappiamo invece che esiste
almeno dal XII secolo un testo indiano che si intitola Śukasaptati,
I settanta racconti del pappagallo. Anche questo
testo ha la struttura che troviamo nella fiaba piemontese:
c’è una storia che porta le altre, una cornice nella quale
il pappagallo racconta per settanta notti per far rimanere
a casa la moglie del suo padrone evitandole di commettere
adulterio. Alcuni studiosi credono che il Śukasaptati
fosse conosciuto in Europa fin dal Medioevo, altri invece
che si sia diffuso qualche secolo più tardi. Ma come avrà
fatto il narratore popolare piemontese vissuto
nell’Ottocento a conoscere favole narrate in lingue
diverse dalla sua? Nessuno finora ha mai raccontato il
viaggio di questa storia, ma il suo fascino è indubbio e
testimonia, quanto meno, che i motivi fiabeschi non
conoscono confini geografici né temporali e che abitano,
con uguale piacere dell’ascoltatore, i luoghi della
narrazione colta come quelli della narrazione popolare. Di tutt’altro genere e di tutt’altro tono è la storia narrata dal pappagallo: la fiaba cioè della figlia del re che, rimasta completamente sola e priva della sua bambola, viaggia per il mondo guarendo molti principi prima di trovare colui che è ammalato d’amore per lei. Delle due storie intrecciate è questa che abbiamo attribuito all’ingiunzione della Palude dei derelitti, perché la fanciulla viene derubata di tutto: del padre, ucciso dai nemici, e della bambola, che si era fatta fare «uguale identica a lei, col suo stesso viso, della sua stessa altezza». E rimasta completamente sola, senza nessuno che si occupi di lei e senza nessuno di cui occuparsi, inizia un lungo viaggio che la porterà a riunirsi con la sua bambola e a trovare qualcuno da amare. Il quadrante di questa fiaba è il nord-ovest, perché l’attante protagonista è una fanciulla (ovest) e perché ciò che la spinge all’azione è l’assenza del padre (nord). Sostiamo ancora un po’ in questa fiaba o, per meglio dire, viaggiamo con la fanciulla protagonista che, vestita da uomo, sperimenta una caratteristica che è parte del femminile: la cura. I principi che guarisce lungo il suo cammino hanno in comune il fatto di essere prigionieri di figure ctonie e per la maggior parte femminili. La ragazza infatti per scoprire qual è il male che li attanaglia, deve scendere nella parte più fonda e scura della prigione o in un antro che si apre sotto il letto del malcapitato o comunque vegliare durante la notte. È come se lei stessa dovesse sperimentare il profondo legame fra morte e vita, per capire come guarire prima di ritrovare la sua bambola. E può giungere alle nozze, l’unione che nelle fiabe è feconda per eccellenza, solo dopo questo lungo percorso: non importa se il suo principe si è già innamorato di lei vedendo la sua immagine fissata nella bambola, finché lei non compie il suo viaggio e non si confronta con la potenza dell’intrico di morte e vita, non c’è spazio per l’incontro con il maschile. Che può finalmente avvenire quando, pronta di nuovo a esercitare le sue doti taumaturgiche, la fanciulla ritrova se stessa. (CC) |
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Jack e
la pianta di fagioli Palude dei derelitti Quadrante sud-est |
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Fabulando propone questa celebre fiaba traducendo una versione anonima del 1807 (Londra, The History of Jack and the Bean-Stalk), che dichiara di riprodurre un manoscritto originale mai pubblicato fino ad allora. Jack è incapace di aiutare la madre a sopperire ai loro bisogni, e la povera donna lo manda al mercato con la sua mucca perché la venda, dato che non ha altre risorse per sfamare se stessa e il figlio. Ma prima di arrivare al mercato Jack è sedotto da certi semi colorati, al punto che, come ha fatto Nardiello con i suoi tre animaletti artisti, dà tutto ciò che ha per averli. Jack torna a casa felice, convinto che la madre approvi il suo acquisto, ma la madre perde la pazienza e scaglia lontano quel che a Jack era parso tanto prezioso. Il mattino dopo Jack vede che è cresciuta una pianta di fagioli la cui cima si perde fra le nuvole, e decide di scalarla per cercare la sua fortuna, nonostante la madre cerchi di dissuaderlo. Oltre le nuvole c'è un mondo nel quale vive una fata che gli rivela quel che sua madre gli ha sempre taciuto per proteggerlo, vale a dire chi era suo padre e come sia morto. La fata racconta che suo padre era un uomo immensamente generoso, e che un orco lo ha ingannato e ucciso, per impadronirsi di tutti i suoi tesori. Gli assegna quindi il compito di vendicarlo, riprendendosi tutto quello che apparteneva a suo padre. Lo scioperato Jack riesce a farsi ospitare dalla moglie dell'orco, e quando questi dorme gli sottrae tutto quello di cui si era impadronito. Prima gli prende la gallina che depone uova d'oro, poi due borse piene di monete d'oro e d'argento, e infine un'arpa che suona magnificamente senza che nessuno tocchi le sue corde. Quando fugge per la terza volta l'orco si sveglia e lo rincorre, e anche se è rallentato dal troppo vino che beve ogni sera sta per raggiungerlo. Ma Jack,appena tocca terra, taglia alla base la pianta di fagioli che rovina a terra insieme all'orco, uccidendolo. E così Jack, liberando la madre da qualunque preoccupazione, può vivere per sempre in pace e prosperità. Il tema dell'avidità e della generosità attraversa tutta la fiaba di Jack, che dal momento in cui viene a sapere della sua origine paterna usa la sua astuzia per recuperare quel che il padre aveva perduto. L'orco aveva ingannato, ucciso e derubato il generoso padre di Jack, e a sua volta viene ingannato, derubato e ucciso dal giovane, che così accede all'eredità paterna. Ma nulla accadrebbe se Jack non si innamorasse dei semi colorati, cibo comune e magico come i ceci della fiaba di Cecino, dando in cambio tutto quello che ha, anche se in questo modo va a letto senza cena, come accade ad Adamantina nella fiaba della Bambola Popoavola. Questo attante protagonista. scioperato e perdigiorno, ha tanti fratelli fiabeschi che non possono crescere se non si mettono in cammino, e possono farlo solo quando, seguendo il loro desiderio, ricevono un oggetto magico. Molto diffusa in ambito anglosassone, questa fiaba contiene il motivo dell’orco feroce ed enorme al quale il protagonista sfugge per agilità e astuzia: è l’antico eterno motivo del piccolo che vince il grande, come David vinse Golia e Ulisse il ciclope. Così ogni nuova generazione è destinata a vincere il mondo dei grandi, come i bambini chiamano i genitori, purché riesca a ottenere le ricchezze appartenute alla generazione passata. (AG) |
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Di questa fiaba esiste anche l'e-kamishibai, accessibile dalla carta della fiaba. | |||||||||||||||||
Humà,
l'uccello della fortuna Palude dei derelitti Quadrante nord-est |
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L'attante protagonista di questa fiaba è un povero legnaiolo. Il suo aiutante magico è Humà, che vedendolo così derelitto depone accanto a lui un uovo d’oro. Il legnaiolo, che non ne conosce il valore, lo dà a un mercante che glielo compra per una miseria, e gli promette una rupia se gli porterà l’uccello che l’ha deposto. Il legnaiolo cattura l’uccello della fortuna, e lo mette in un sacco nonostante Humà gli prometta grandi ricchezze se lo lascerà libero. Nel sacco del taglialegna il povero uccello muore soffocato. L'uomo, pensando che il mercante no ngli darà nulla per un uccello morto, brucia una delle sue penne, e in un batter d'occhio si trova nell’ultramondano reame della famiglia dell’uccello. Humà torna in vita, e il legnaiolo che lo aveva ucciso si ritrova sulla terra povero come prima. Passa il tempo, e non avendo di che dare una dote alle sue figlie perché possano sposarsi, il legnaiolo va a cercare un re noto per la sua immense generosità, ma il re è diventato povero. Non avendo altro, il nobile sovrano gli dà sua figlia, perché vendendola come schiava possa avere quel che gli serve per la sua famiglia. Lungo il cammino i due incontrano un giovane re, che si innamora della bellissima principessa e la sposa, dando al taglialegna una somma che lo libera dalla miseria. Quando dopo un certo tempo viene a sapere che la sua sposa è la figlia del nobile re, manda a chiamare il taglialegna, per farsi raccontare tutta la storia. Poi fa venire il nobile generoso suocero e lo fa regnare al posto suo: saprà farlo meglio di lui, che è ancora giovane e inesperto. E all’avido mercante viene ordinato di dare al nobile re l’uovo d’oro di Humà, Uccello della Fortuna. I doni soprannaturali spettano a chi non ne è entrato in possesso con l'inganno o per avidità. Accade con rigore matematico nelle fiabe che lo stesso oggetto magico che fa la fortuna dell'ingenuo attante protagonista non rechi mai beneficio all'avido. La sua figura potrebbe rappresentare l'incapacità di distinguere ciò che appartiene a una dimensione ultramondana con beni materiali, concreti, che possono essere misurati come se fossero oggetti di commercio, d'inganno, di furto. Le fate, gli uccelli che depongono uova d'oro, e tutto ciò che dispiega potenza magica nelle fiabe è indipendente da qualunque potere religioso, eppure partecipa dell'indomabile sfera del sacro. (AG) |
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L'anatra
dalle uova d'oro Palude dei derelitti Quadrante nord-est |
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Questa storia russa è stata raccolta da un anonimo folklorista inglese alla fine del XIX secolo, ma potrebbe risalire a molto tempo prima. Piccolo Ivan, attante protagonista della nostra fiaba, mangia un’anatra arrosto senza sapere che è l'animale magico che deponendo uova d’oro ha fatto diventare ricco suo padre. La madre di Piccolo Ivan l’aveva arrostita per accontentare il suo garzone preferito, senza sapere il segreto di cui quello era venuto a conoscenza: chiunque avesse mangiato l’anatra sarebbe diventato zar. Ma la magia non favorisce gli avidi, e il destino regale tocca all’ignaro giovane, che non ne sa nulla, e per il momento si trova solo per il mondo, dato che il padre lo scaccia da casa. Piccolo Ivan cammina e cammina, finché arriva alle porte di una città i cui abitanti lo acclamano come il loro nuovo zar. In molte storie delle Mille e una notte si racconta che quando manca un erede al trono i dignitari e/o il popolo escono dalla porta della città, e aspettano il primo che vi giunge, per salutarlo come il loro nuovo zar. Un metodo aleatorio, certo, ma anche un affidamento al destino. Del resto, non esistono metodi infallibili, nemmeno ai giorni nostri. Se leggessimo questa fiaba, e le altre che sono riunite nel Tour dei giovani derelitti, come un apologo della generosità contro l'avidità, secondo il quale il giovane ingenuo e innocente è premiato, mentre nessun dono spetta all'avido e all'invidioso, ci fermeremmo alla superfice e perderemmo il senso vivo della fiaba, che non ha nulla a che vedere con il moralismo e i buoni insegnamenti. La fiaba racconta del rapporto fra l'attante umano e il destino, personificato da animali magici ed esseri dotati di poteri misteriosi che possono rappresentare i casi fortunati e sfortunati che ci capitano senza che possiamo evitarli. A proposito dell'ingenuità di chi beneficia della magia, si tratta di attanti che non misurano quel che incontrano, siano oggetti, siano animali o esseri umani, con il metro del buon senso. Apparentemente sprovveduti, essi entrano in gioco sospendendo i criteri razionali e il calcolo comune che guidano i loro attanti antagonisti - come il garzone preferito dalla madre del Piccolo Ivan. Il loro carattere li rende capaci di interagire con le forze favorevoli e sfavorevoli che in ogni vita si manifestano, e che nessuna misura comune può veramente classificare. (AG) |
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L'oca
d'oro Palude dei derelitti Quadrante sud-est |
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I Fratelli Grimm, che conoscevano bene la raccolta di Basile, raccontano di tre fratelli che andarono uno dopo l'altro a far legna nel bosco. Tutti incontrarono un piccolo uomo grigio, che chiese loro di dividere con lui la loro frittata e il loro vino, perché aveva fame e sete. Ma i due fratelli maggiori rifiutarono, dicendo che quel che avrebbero dato a lui sarebbe mancato a loro. Il terzo invece invitò il vecchietto a sedersi con lui, pronto a dividere il suo cibo. I primi due fratelli avevano dovuto tornare a casa di corsa perché si erano feriti con la scure, mentre al terzo, per il suo buon fece un dono. Indicandogli un vecchio albero, gli disse di abbatterlo, e di prendere quel che avrebbe trovato fra le sue radici. Nelle fiabe dove gli attanti protagonisti sono giovani poveri e ingenui, che ottengono un dono magico, come una bambola o un'oca che donano monete o uova d'oro, la narrazione si dipana intorno alla generosità degli attanti e all'avidità dei loro antagonisti. Nella nota di questa pagina a proposito della fiaba russa L'anatra dalle uova d'oro abbiamo osservato come l'opposizione fra gli ingenui generosi, che beneficiano della magia, e gli avidi disonesti, che non ne traggono alcun vantaggio o ne ricevono un danno, non sia da intendere alla lettera. Il vecchietto grigio di questa fiaba sembra conoscere l'etica evangelica espressa da Matteo. Nel giorno del Giudizio il Figlio dell'Uomo separerà definitivamente i giusti dagli ingiusti, premiando i primi e punendo i secondi per l'eternità. Perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi. (Matteo 25, 35-36) Così il Re Celeste dice ai giusti invitandoli alla sua destra. Alla domanda dei giusti, di quando hanno fatto ciò che costituisce la ragione della loro salvezza, risponde: In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me. (Ivi, 40) Gli ingiusti saranno alla sua sinistra e meriteranno la dannazione eterna perché non lo hanno fatto, e quando pongono la stessa domanda dei giusti, ricevono la stessa risposta: ogni volta che non hanno soccorso uno dei suoi fratelli più piccoli, hanno respinto il figlio di Di o e Dio stesso Gli eventi della fiaba accadono in uno spazio lontano lontano, tanto tanto tempo fa, del quale si narra che altri gli hanno narrati ad altri, fino al narratore attuale, e in questa dimensione delimitata dalle formule di apertura e di chiusura tutto accade, fino alla fine che esaurisce la storia. Dono e punizione, rischi e soluzioni, magie e incantesimi fasti e nefasti, tutto sta dentro la storia narrata, che non rimanda a mondi diversi dal proprio. Il premio e la punizione vengono assegnati agli attanti che le meritano, e il vecchietto grigio che dispensa la magia al protagonista di questa fiaba non gli propone di rimandare il suo desiderio o il suo bisogno a un regno esterno al racconto stesso, Ma l'attitudine a riconoscere nell'altro la propria stessa umanità, per quanto appaia piccolo e debole, vale come accesso all'esperienza del sacro, tanto che echeggia le parole del Vangelo. Nelle fiabe la potenza magica che permette all'attante di raggiungere il lieto fine spesso sgorga da qualcosa di insignificante, come il Dio che separa giusti e ingiusti alla fine dei tempi può manifestarsi nei fratelli più piccoli. Il candore del fratello minore viene introdotto come una dabbenaggine, tanto che il giovane viene schernito, e chiamato il grullo. I suoi due fratelli maggiori, dotati di buon senso, aderiscono alla misura concreta di ciò che possiedono: "Ciò che do a te, manca a me. Vattene per la tua strada!" (L'oca d'oro, e-book, p. 17). A chi segue solo il senso comune, che misura, classifica, assegna un valore in danaro, appare una sciocchezza privarsi di una parte di ciò che possiede per dividerlo con chi ne ha bisogno, perché ha fame e sete, come il vecchietto grigio, che non sembra avere niente da dare in cambio. Per questo è lo sciocco, l'ingenuo, il grullo, a rispondergli con generosità, e allora quel che dà del poco che possiede non è quel che viene a mancargli, ma quel che lo colma di ricchezza. Si tratta di compassione, da intendersi nel significato etimologico: passione con, comunanza di passione, riconoscimento della propria passione, del proprio sentire e patire, nella passione dell'altro. Si tratta di un'esperienza che arricchisce chi si priva del suo per l'altro, a patto che non lo sappia nel momento in cui la generosità lo guida a donare qualcosa, o anche tutto quello che ha. La condivisione del proprio, scarso, cibo apre alla dotazione magica dell'attante protagonista in questa fiaba come in quella di Fiore e Gambodifiore, mentre fra quelle dove la magia entra ad arricchire e rendere felice nel momento in cui l'attante protagonista dà tutto quel poco che possiede ricordiamo Bambola Popoavola, Jack e la pianta di fagioli, Lo scarafaggio, il topo e il grillo. Il vecchietto grigio, dopo aver mangiato quel che aveva il figlio minore, gli indica un albero da abbattere, fra le cui radici troverà qualcosa di prezioso: c'è un'oca tutta d'oro! Il fratello minore diventa il legittimo proprietario di un'oca d'oro. Quando due ragazze cercano di impadronirsi di una delle sue piume, si attaccano all'oca con la stessa forza invincibile con la quale la Bambola Popoavola si attacca al posteriore del re che l'aveva usata per pulirsi dopo un bisogno. La potenza collante dell'oca d'oro è tale che quando il giovane si mette in cammino con l'oca in braccio, senza curarsi di chi vi è attaccato, le ragazze devono camminare e correre con lui, e tutti quelli che cercano di trattenere le ragazze si attaccano a loro, e altri a questi, formando un comico corteo dietro al giovane che va di qua e di là tenendo in braccio la sua oca d'oro senza curarsi di loro. Siccome il re padre non vuole un genero come quello, cerca di eliminarlo imponendogli tre compiti impossibili, come il re di Nardiello, che aveva fatto ridere per la prima volta la principessa con lo scarafaggio, il topo e il grillo. Il giovane possessore dell'oca d'oro, ricorrendo all'aiuto del vecchietto grigio, supera tutte le prove, e alla fine sposa la principessa, e vivono tutti felici e contenti. (AG) |
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La
papera Palude dei derelitti Quadrante sud-ovest |
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Come mai Giambattista Basile rinarrando con La papara la Bambola Popoavola di Giovan Francesco Straparola ha sostituito la bambola? La bambola di pezza che la notte aveva inondato il letto di Adamantina di monete d'oro, e di cacca disgustosamente maleodorante il letto della donna invidiosa che voleva arricchirsi, prende corpo dal'equazione danaro/oro/feci, che il bambino vive durante la fase anale. Il genitore che abbia sperimentato l'ostinazione con la quale il bambino o la bambina impongono la loro gestione del solo prodotto che pososno padroneggiare autonomamente, e la loro vera disperazione quando un clisterino li costringe a capitolare, avrebbe gli elementi basilari per comprendere i giochi di potere con i quali gli esseri umani si dominano e si sottomettono. Per quanto le fiabe non rispondano ai limiti spaziotemporali che regolano misure e ritmi della nostra vita di veglia, accolgono con qualche difficoltà l'idea che una papara - un'oca - possa essere considerata adatta alla funzione già assolta dalla bambola di pezza. Eppure, se una bambola o una papera possono evacuare monete d'oro, entrambe possono ben attaccarsi - una con i denti, l'altra col becco - al regale posteriore, e restarci finché la loro amorevole padroncina non le convince a lasciare la presa per tornare fra le sue braccia. A noi piace pensare che Basile, napoletano, non conoscesse la parola veneta poavola, che voleva dire bambola, e che la potesse ben associare con la favola classica della gallina auripara, risalente a Esopo e Fedro e innumerevoli volte rinarrata come exemplum: così due creature auripare, una bambola di pezza e una gallina antica, si incontrano e dal loro incontro nasce la papara. La dinamica della fiaba di Straparola viene ripresa da Basile, e la papara napoletana non arricchisce chi la cura amorevolmente deponendo uova d'oro, ma utilizzando lo stesso orifizio anale della bambola veneta. L'orifizio anale e genitale - femminile - si scambiano le parti nel dispensare oro, come possono scambiarsi le parti nelle fantasie dei bambini piccoli su come nascono i bambini. E se l'investimento erotico non transita dall'orifizio anale ai genitali, il potere sarà l'oggetto di desiderio dominante. Il piacere che provano i bambini ascoltando questa favola, soprattutto se sono ancora impegnati a difendere la gestione autonoma e arbitraria del loro prodotto anale, unico e pertanto prezioso, deriva dalla messa in parola del grande pregio che può rivestire quel che per gli adulti è oggetto di disprezzo, tanto che la parola volgare che lo designa viene usata in buona parte del mondo per denigrare una persona, un oggetto, una situazione. La creatura magica, bambola o papera, realizza la fantasia infantile che attribuisce un valore immenso alle proprie feci, contro il disprezzo di cui i genitori le fanno oggetto. Dispone poi di una potenza tale, pur non essendo altro che una bambola di pezza o un oca che possono essere gettate nella spazzatura, che il re e tutti i suoi medici e servitori non possono impedirle di restare attaccate al regale posteriore. E questa fiaba, come quella di Straparola, continua con la stessa umile e ingenua protagonista, che in nome dell'amorevolezza con la quale l'aveva ottenuta e curata chiede che finisca il tormento che la creatura auripara infligge al re, rappresentate del massimo potere, proprio nell'area anale. Basile racconta, come Straparola, che il re, non avendo alcun mezzo per staccare dal suo corpo la mordace creatura, aveva fatto questo bando: se un uomo fosse venuto a liberarlo gli avrebbe dato metà del suo regno, se fosse venuta una donna, l'avrebbe sposata. Il detentore del potere si libera dal morso se cede una parte del suo regno, o se accetta di dividere la sua vita con una sposa. La fiaba che racconta del potere che si struttura nella fase anale, si conclude affermando il primato della condivisione, che apre alla relazione con l'altro e a una nuova generazione. (AG) |
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Pietropazzo Palude dei derelitti Quadrante nord-est |
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Ma che direm noi a coloro che della mia
fame hanno tanta compassione che mi consigliano che io
procuri del pane? Certo io non so; se non che, volendo
meco pensare qual sarebbe la loro risposta se io per
bisogno loro ne dimandassi, m’avviso che direbbono: -
Va’ a cercarne nelle favole -. E già più ne trovarono
tra le lor favole i poeti, che molti ricchi ne’ lor
tesori. E assai già, dietro alle lor favole andando,
fecero la loro età fiorire, dove in contrario molti
nel cercar d’aver più pane che bisogno non era loro,
perirono acerbi. (Boccaccio,
Giornata IV, Introduzione; p. 319) La fiaba comincia con una burla che si
ripete ogni giorno, quando Pietropazzo, tornando a sera,
grida alla mamma di portar fuori tutti i suoi recipienti
per riempirli con la sua pesca, mentre in realtà non
prende mai nemmeno un pesciolino. La scena scatena
regolarmente il riso della principessina affacciata alla
finestra del castello, e la rabbia di Pietropazzo. Resistendo alla voglia di portarselo a casa,
Pietropazzo allora lo libera, e seguendo le sue
indicazioni, riempie la barca di tanti pesci che rischia
di affondare. Questo è un motivo ricorrente, che ha il suo
antecedente nella mitologia greca nella storia di
Perseo, che fu generato per un intervento divino, la
passione di Giove per la principessa Danae, comunque
soprannaturale come la gravidanza magica di Luciana. Il
re padre di Danae abbandona lei col suo bambino alle
acque in una cassa di legno, cercando di evitare che si
realizzi la profezia secondo la quale sarà ucciso
proprio da un suo discendente. È morto il re, viva il re. Il succedersi
delle generazioni comprende l’invecchiamento e la morte
degli uni come la nascita degli altri. L’ascendente
cerca di uccidere il discendente tentando di trasgredire
questa legge della vita, e non può che fallire. Si
osserva poi che in tutte le storie i bambini abbandonati
alle acque anziché annegare vengono raccolti e nutriti,
fino a quando, diventati grandi, belli e forti, si
mettono in cammino e puntualmente tornano proprio da
dove erano stati allontanati. Il destino si compie nel
mito di Perseo con la morte del re suo antenato, per
mano del nipote ignaro della sua identità. Nelle fiabe
al posto della morte si trova l’abdicazione del vecchio
re a favore del discendente, che finalmente riconosce
come suo degno successore. Tornando alla nostra fiaba, che Giovan
Francesco Straparola
narrò per primo, e che il gran Basile
ha rinarrato ne Lo cunto de li cunti,
andiamo a vedere cosa fanno la principessina innocente,
il disadattato Pietropazzo e il loro bambino, nella
botte che il re aveva fornito di una cesta di pane e
uno fiasco di buona vernazza e con uno barile di fichi
per lo fanciullo (e.book, p. 36). Mentre
Pietropazzo mangia e beve senza pensieri, la
principessina si dispera, e culla il bambino, nutrendolo
con qualche fico. Chiede a Pietro come possa essere
indifferente alla sua sofferenza, di cui è responsabile,
e al pericolo di essere da un momento all’altro sommersi
dalle onde. Pietro risponde che non corrono alcun
pericolo, e quando le rivela il segreto del suo aiutante
magico, Luciana lo prega di chiamarlo e di fare in
modo che il Pescetonno esaudisca anche lei. In questo
modo la principessa chiede al Pescetonno di porli
in salvo su una piccola isola, di trasformare
Pietropazzo in un giovane bello e savio, e di costruire
per loro un magnifico palazzo, con un giardino nel quale
cresca un albero che dia frutti di pietre preziose. Lasciando da parte l’albero dai frutti
proibiti che presto gustarono Adamo ed Eva, ricordiamo
nella mitologia greca gli alberi dai frutti d’oro del
giardino delle Esperidi, e il giardino nell’isola dei
Feaci, dove tutti i frutti maturavano in ogni stagione
dell’anno. Come esempio di un giardino magico nella
favolistica araba, pensiamo agli alberi carichi di
pietre preziose di ogni colore che Aladino vede nel
sotterraneo dove è sceso per prendere la lampada (vedi
anche: Adalinda
Gasparini, Aladino e la lampada
meravigliosa. Viaggio psicoanalitico,
1993, pp. 81-97). E così sani e salvi, Pietropazzo e Luciana
vivono col loro figlio nel favoloso palazzo. Dopo
qualche anno, il re e la regina, per lenire la
malinconia che li accompagna da quando hanno perduto la
figlia, partono con una nave per compiere un
pellegrinaggio: vedendo un palazzo del quale ignoravano
l’esistenza accostano la nave e scendono a terra,
accolti dai suoi abitanti ricchi, belli e felici, che
però non riconoscono. Mentre ammirano il giardino, la principessa
Luciana fa in modo che uno dei frutti preziosi finisca
nella veste del re, e chiede a tutti i presenti di
dimostrare di non aver nascosto nelle loro vesti il
frutto prezioso. Il re si scioglie la veste, rimane
allibito vedendo cadere il frutto prezioso, e protesta
la sua innocenza. Allora la principessa dichiara di
credergli nonostante l'evidenza, mentre il re non ha
voluto credere all'innocenza di sua figlia. E continua,
senza trattenere il pianto: Signor mio, sapiate ch’io sono quella
Luciana, la quale infelicemente generaste e con Pietro
pazzo e col fanciullo a morte crudelmente dannaste. Io
sono quella Luciana, vostra unica figliuola, la quale
senza aver conosciuto uomo alcuno pregna trovaste.
Quest’è il fanciullo innocentissimo senza peccato da
me conceputo —: e appresentogli il fanciullo. —
Quest’altro è Pietro pazzo, il quale per virtú d’un
pesce chiamato tonno, sapientissimo divenuto, fabricò
l’alto e superbo palazzo. Costui fu quello che, senza
che voi ve n’avedeste, vi puose il pomo d’oro in seno.
Costui fu quello di cui non con stretti
congiungimenti, ma con incantesimi gravida divenni. E
sí come voi dell’involato pomo d’oro siete innocente,
cosí parimente della gravidanza io ne fui
innocentissima —. (Ibid. pp. 60-62). Frutto prezioso, il figlio, frutto magico,
gemma: la gemma è sia la pietra preziosa che la parte
della pianta attraverso la quale la vegetazione si
riproduce. La nascita è un mistero, non solo perché la
gravidanza magica ricordi il concepimento di una
vergine, motivo centrale nei Vangeli, che si trova anche
nel poema induista Mahabharata, ma perché chiamiamo
mistero ciò che non possiamo controllare e
padroneggiare. Il re padre non può dar credito alla
figlia, quando protesta la sua innocenza, e se non lo
trattenessero la regina e i suoi consiglieri la
condannerebbe a morte già nel momento in cui si
manifesta la gravidanza. Per questo la perde, e la
malinconia per l’arresto della generazione è la sua
pena. Lo scacco del re, personificazione del potere, è
lo scacco di ogni genitore, quando scopre la radicale
alterità del figlio, che la vita sottrae al suo
controllo e alla signoria assoluta che esercitava quando
era ancora bambino. Ogni genitore ha il diritto e il
dovere di dominare il figlio, ma nessuna teoria
pedagogica o psicoanalitica potrà evitargli la ferita
narcisistica del suo distacco, quando il suo germoglio
diventa un albero e dà frutti, manifestando una forma
che non coincide con quella desiderata dal genitore. È
come se si rompesse uno specchio, perché la continuità
fra le generazioni, per fluire, esige una discontinuità,
in un gioco di contrasti vitali che la nostra coscienza
può riconoscere solo se riconosce e sopporta la ferita,
elaborandola attraverso la riflessione. Il re è morto,
viva il re. Il re abdica, un nuovo re ascende al trono.
A differenza del re, che personificando la
legge non può comprendere la magia, che è il nome di un
processo che non riesce a scomporre e controllare,
Pietropazzo rimette in mare il Pescetonno che finalmente
potrebbe sfamare lui e sua madre dando credito a
un'irrealistica promessa, e la principessina lascia da
parte il senso comune e prende sul serio il discorso di
lui, quando le dice del suo amico magico, abitante del
mare. Così salva se stessa insieme a lui e al loro
bambino nato per magia. Ma non c’è qualcosa di magico in
ogni nascita, nella creatura che somiglia a due persone
che vengono da famiglie diverse, e ad antenati di cui si
è anche perduta la memoria? La principessa Luciana arricchisce il padre
mostrandogli come si possa apparire colpevoli pur
essendo innocenti, e grazie a questo finale la vita
torna a scorrere, con gli eredi al trono che ottengono
quel che spetta loro, dopo una vicenda piena di rischi e
di magia, come se ne trovano sempre nelle fiabe. (AG) |
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Il Gatto
con gli stivali Palude dei derelitti Quadrante nord-est |
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Antoine Galland era uno studioso francese che conosceva l’arabo e molte altre lingue, antiche e moderne. Fece ritorno a Parigi dopo aver passato molti anni in Medio Oriente, e fu sorpreso nel vedere che tutti impazzivano per le favole di Perrault. Lui ne aveva conosciute tante fra gli arabi, come quelle delle Mille e una notte. Allora si fece mandare dalla Siria un manoscritto del XIV secolo, vale a dire del tempo in cui in Italia Dante, Petrarca e Boccaccio scrivevano i loro capolavori. Galland tradusse in francese Le mille e una notte, e il primo volume fu pubblicato nel 1704, quando io vivevo felice tra la reggia di Versailles e i salotti parigini. Furono pubblicati altri volumi fino al 1715, e il successo fu immenso. La meravigliosa raccolta araba, che Galland per primo aveva tradotto in una lingua europea, fu tradotta in molte altre lingue, e diventò il best-seller del XVII secolo. Se ora vi state chiedendo cosa ho a che fare io con le Mille e una notte, statemi a sentire... Kana jama kana in arabo vuol dire c’era una volta, l’ho sentito pronunciare una sera che mi sono seduta sulla finestra di Galland mentre leggeva a voce alta il manoscritto siriano che stava traducendo. C’era una volta un povero pescatore, tanto sfortunato che non pescava quasi nulla e spesso la sua famiglia digiunava. Una sera gli capitò di trovare nella rete un vaso di rame. Pensò di pulirlo e svuotarlo per venderlo al mercato, ma appena tolse il tappo col sigillo di Re Salomone, uscì dall’antico vaso una colonna di fumo, che in un batter d’occhio salì fino alle nuvole, per poi condensarsi e prendere la forma di un génie, come diceva Galland, un genio, praticamente un demone. Quel brutto figuro gli disse con voce tonante: - Scegli la morte che preferisci, perché sto per ucciderti. Il pescatore si inginocchiò e lo supplicò di non prendergli la vita, ma quel demone non ebbe pietà. - Perché, - chiese allora il pover’uomo, - vuoi uccidere chi ti ha liberato? - Sappi, - il demone rispose, - che nei primi cento anni della mia prigionia avevo giurato di rendere ricchissimo chiunque fosse venuto a liberarmi, ma non venne nessuno. Nei cinquecento anni che seguirono pensai che avrei mostrato al mio liberatore tutti i tesori sepolti nella terra, ma nessuno venne. Passarono altri mille anni durante i quali decisi di servire per sempre chi mi avesse fatto uscire da questo vaso di rame, soddisfacendo ogni suo desiderio. Ma nessuno venne. Allora giurai che avrei ucciso chi fosse venuto a tirarmi fuori di qua, chiunque fosse. Sentendo queste parole il pescatore provò un terrore tale che se la fece ad-dosso. Poi però si ricordò che gli esseri umani, per quanto fragili, hanno una intelligenza superiore a qualunque al-tra creatura. Escogitò allora un trucco sopraffino, identico al mio con l’orco. - Prima di morire, o potentissimo demone, - disse, - ti supplico di soddisfare il mio ultimo desiderio: mostrami come facevi a stare tutto in questo vaso di rame, perché non riesco proprio a crederci. Come il mio orco il demone si sentiva invincibile, e con una risataccia ridusse le sue dimensioni fino rientrare completamente nel vaso. Il pescatore fu lesto a rimetterci il tappo, poi disse al genio che l’avrebbe ributtato in mare, perché meditasse per altri mille e mille anni sulla sua crudeltà. Il pescatore in seguito diventò ricchissimo, ma non posso continuare a raccontarvi la sua storia. Quel che conta è che il povero pescatore riuscì a vincere quel prepotente spiritaccio, grazie all’intelligenza e alla fantasia. (Dall'e-book La Gatta racconta, pp. 33-40. A proposito delle Mille e una notte, vedi anche: Adalinda Gasparini: Aladino sul lettino, 1988). (AG) Di questa fiaba esiste anche l'e-kamishibai, accessibile dalla carta della fiaba. |
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La Gatta
con gli stivali Palude dei derelitti Quadrante sud-est |
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La nostra Gatta con gli stivali, dopo che Straparola per primo pubblicò la sua storia, venne rinarrata da Basile, ma il finale era così triste che la gatta se ne andò. Cammina cammina, dopo aver lasciato il mio padrone a Napoli, non mi fermai da nessuna parte se non per riprendere fiato, e dopo una sessantina d’anni arrivai a Parigi. Ero stremata, non avevo più voglia di aiutare nessuno, né di andare a chiacchierare con i re. Come dice un proverbio citato da Basile, a far bene agli asini si prendono calci. Il peggio è che non avevo più voglia nemmeno di cacciare: digiunavo spesso, come capita ancora ai gatti abbandonati. Allora capitava anche a tanti poveri francesi, mentre il loro Re Sole era ricco da non dirsi. Viveva nella Reggia di Versailles, tra feste in maschera e giochi meravigliosi. Pensate che una volta capitai da quelle parti, e salita su un albero vidi una battaglia navale nelle vasche del parco, con bastimenti in miniatura, sui quali il Re Sole e i suoi cortigiani guerreggiavano per divertimento… A un certo punto vidi arrivare una bella carrozza, che si fermò al cancello. Ne scese un elegante signore che guardò nella mia direzione e mi chiamò:il cortese invito. Era Charles Perrault, architetto e narratore preferito di sua maestà! Mi disse che il Re Sole amava le fiabe, e che la mia era una delle sue preferite. - Vi prego - concluse - di farmi l’onore di essere mio ospite. Caro amico, sarà mia premura ordinare al cuoco di prepararvi i vostri piatti preferiti, inoltre vi farò confezionare un paio di morbidi stivali e un cappello piumato. Monsieur, mi accompagnerete a caccia nelle riserve reali, n’est pas? In breve tempo potrete recuperare le forze e sarete più affascinante che mai. Su quella splendida carrozza dimenticai i calci ricevuti a Napoli e ricominciai a credere nelle favole, ricordando un proverbio di Basile: fa’ il bene e scordatene. Ma perché Perrault mi chiamava Monsieur? Forse non curando più la mia pulizia avevo perso tutta la mia femminilità. Maître chat! Mi fece cenno di salire sulla sua carrozza, e per quanto fossi polverosa e male in arnese mi diedi un contegno, cosa che noi gatte e gatti sappiamo sempre fare. Insomma, feci un inchino e accettai Grazie a Perrault, che conosceva sia Straparola che Basile, la mia fiaba aveva viaggiato più veloce di me, e senza saperlo ero diventata uno dei personaggi più famosi del mondo. Quelli che non conoscono la mia storia raccontata da Straparola nel Cinquecento e da Basile nel Seicento, credono che mi abbia inventato Perrault, e di fatto il mio padroncino non è conosciuto né come Fortunato né come Pippo Cagliuso, ma col nome che gli ha dato il narratore preferito del Re Sole: il Marchese di Carabas, voilà! Anche se mi dispiace che pochi ricordino che la mia fiaba italiana circolava in Europa già da un secolo e mezzo, sono grata a Charles Perrault, che mi ha fatto indossare quel bel paio di stivali, veramente confortevoli. Quando gli feci notare che ero una gatta, una femmina, mi disse che ormai, dopo che ero entrata a far parte della sua raccolta di fiabe, Les Contes de ma Mère l'Oye, per tutti ero e sarei rimasta il Gatto con gli stivali, un maschio. Per qualche giorno non mi sentirono parlare e nemmeno miagolare, ma poi mi sono adattata, ricordando che non ero la prima a cambiare sesso nel mondo delle favole: Tiresia, il più grande indovino dell’antica Grecia, era nato maschio, poi era stato trasformato in femmina, poi era ridiventato maschio. Io ho fatto il contrario: femmina a Venezia e a Napoli, sono diventata maschio a Parigi, per tornare femmina a Firenze, in questa tabtale, pur essendo ancora conosciuta come gatto maschio in quasi tutto il mondo. Nella favola di Perrault ero ancora un’eccellente cacciatrice, pardon, un cacciatore, anche perché con quegli splendidi stivali potevo andare dappertutto. Ormai camminavo solo sulle zampe posteriori ed ero cortese come se avessi parlato col Re Sole in persona. Ma la cosa più importante che mi ha dato Perrault non sono gli stivali: è la mia avventura con l’orco. Perrault doveva conoscere delle storie in cui una creatura piccola e astuta come me sconfigge un essere grande e pre-potente come l’orco. Di certo una molto simile alla mia si trova nelle Mille e una notte, la raccolta araba che fu tradotta da Antoine Galland proprio a Parigi, prima del 1715, l’anno in cui morì il Re Sole. (Da La Gatta racconta, pp. 21-30) Di questa fiaba esistono anche la storia della fiaba (La Gatta racconta la sua storia), l'animazione, l'e-kamishibai, accessibili dalla carta della fiaba. |
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Gatta
Cenerentola - versione delle Autrici di Fabulando Torre della segregazione Quadrante sud-ovest |
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Questa versione della Gatta Cenerentola
contiene la rinarrazione della fiaba, che le autrici di
Fabulando hanno realizzato nell’app Gatta
Cenerentola, pubblicata nell’App Store nel 2013 e
tuttora disponibile.
In questa versione, le storie di Zezolla detta Gatta Cennerentola (Basile, 1634-36, presente anche in Fabulando), di Culincere (Perrault, 1697), di Cinderella (Disney, 1950) e della Cenerentola fiorentina (Imbriani, 1877) si intrecciano come nelle favole che raccontiamo da adulti si combinano diversi particolari che risalgono a diverse storie della nostra infanzia. In ognuna di queste storie è riconoscibile la vicenda della fanciulla orfana della madre che deve sottostare alle imposizioni della matrigna e delle sorellastre e che, con l’aiuto di una fata, può incontrare il principe, sfuggirgli, ed essere alla fine ritrovata grazie alla scarpetta che ha perduto, per giungere alle nozze regali. Ma in ognuna di queste storie ci sono varianti che le rendono uniche e che in questa rinarrazione si fondono, componendo una versione originale della fiaba più famosa del mondo, che si avvale anche della meravigliosa narrazione illustrata che ne ha fatto Arthur Rackham, le immagini del quale abbiamo elaborato e inserito in ogni pagina del nostro e-book. Per conoscere i vari elementi che hanno contribuito a strutturare la nostra storia, rimandiamo al testo di Claudia Chellini, Una fiaba tutta nuova e tutta antica. Lettura narratologica, pubblicato anche nell’app Gatta Cenerentola. In questa sede vogliamo rilevare alcuni particolari della nostra rinnarrazione che abbiamo trovato con piacere anche nell’ultima Cenerentola cinematografica realizzata dall'inglese Kenneth Branagh e prodotta dalla Disney (US, 2015). Un primo elemento riguarda la figura del principe. Nella nostra storia il principe ha una determinazione tale da imporre la sua scelta ai regali genitori che lo aiutano nella ricerca della sua amata. L’inglese Marian Roalfe Cox, membro della London Folklore Society, nel 1893 pubblicò un testo fondamentale per chiunque avvicini la storia di Cenerentola, nel quale raccolse trecentoquarantacinque versioni della fiaba suddividendole in cinque categorie, una delle quali porta il nome della favola oggi meglio conosciuta come Pelle d’asino (un cenno a questa fiaba si trova anche nell’ingiunzione del Castello dell'amore imposto). In questo tipo della storia di Cenerentola, l’attante filiale maschile ha un carattere volitivo e, ammalato d’amore per la fanciulla che si presenta in una sudicia veste di animale e che lui ha scorto nei suoi magnifici abiti segreti, ottiene l’aiuto dei suoi regali genitori per trovare la sua bella e farne la sua sposa. Nel suo film Branagh mette in scena un principe con una simile statura: si tratta di un giovane che trova il proprio posto di erede al trono, confrontandosi con un padre che ama e rispetta e al quale mostra la propria fermezza nel voler costruire da sé il proprio destino, sposando la fanciulla che ha incontrato un giorno mentre andava a caccia e non la principessa a lui assegnata per doveri di Stato. Fra gli animali che la fata trasforma insieme alla zucca, nel film ci sono due lucertole, color verde-ramarro, che diventano due valletti, animali assenti nell’animazione Disney del 1950, presenti invece nella versione della fiaba narrata da Charles Perrault, dove sono sei, come nelle illustrazioni di Arthur Rackham che dedica loro uno spazio particolare, disegnandone accuratamente la trasformazione e punteggiando la copertina e alcune pagine interne di piccoli esemplari. Noi ci siamo affezionate a questo animaletto, e nella nostra versione abbiamo raccontato di un unico valletto scegliendo un ramarro invece di una lucertola (nell’app Gatta Cenerentola, inoltre i ramarri sono un leitmotiv che si ritrova nella home page e nelle pagine interne). Dal punto di vista simbolico, la presenza di questo animale sottolinea, in Cenerentola, la sua parte connessa con la cenere, con le scorie del camino: sono suoi amici animali tradizionalmente sporchi come i topi e animali striscianti e perturbanti come i rettili. Questo punto è caratterizzante la fiaba di Cenerentola, che si muove fra due termini: il buio dello sporco e lo splendore della bellezza. Edulcorarlo significa privare la storia di uno dei due termini, impoverendo così la pregnanza complessiva della fiaba. Anche Branagh, come Arthur Rackham, e forse seguendo Rackham, dà ai ramarri-valletti un loro spazio, facendone dei personaggi simpatici, ma che mantengono il loro portato perturbante: trasformati in uomini, hanno la pelle traslucida e verdastra, guanti color giallo-verde che ricordano le zampette, i denti aguzzi da animale e ne vediamo uno acchiappare un insetto con la lingua a molla tipica dei rettili un momento prima di vedere Cenerentola arrivata alla carrozza per fuggire verso casa. Soffermiamoci infine sulla conclusione della fiaba: nella nostra storia, si racconta che la fata, avendo visto che tutto si è risolto per il meglio, vola via lontano nel cielo. Si tratta di una citazione del suggestivo finale della fiaba del XVI secolo Bambola Popoavola (anch’essa presente in Fabulando). La poavola, vedute le superbe nozze dell’una e l’altra sorella, e il tutto aver sortito salutifero fine, subito disparve. E che di lei n’avenisse, mai non si seppe novella alcuna. Ma giudico io che si disfantasse come nelle fantasme sempre avenir suole. E nell'ultima animazione dell'app Gatta Cenerentola, sullo sfondo blu del cielo punteggiato di stelle, la fata vola via accompagnata dal suo accordo caratteristico e dal suo fruscio, sopra Cenerentola e il principe che si sono appena sposati. Anche Branagh ha lasciato questo speciale spazio alla fata madrina: è sua la voce che conclude la narrazione ed è la sua sagoma che si forma dalle nubi del cielo azzurro, accompagnata dallo scintillio tintinnante della sua bacchetta che magicamente fa comparire la tradizionale scritta "THE END". (CC) Di questa fiaba esistono anche l'app-tale (Gatta Cenerentola) e l'e-kamishibai, accessibili dalla carta della fiaba. |
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Gatta
Cenerentola - prima versione pubblicata, XVII secolo Torre della segregazione Quadrante sud-ovest |
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Già
fustevo cippo de ’no ianco pede, mo site tagliole de
’no nigro core; pe vui era auta ’no
parmo e miezo de chiù chi tiranneia ’sta vita, e pe vui cresce
autrotanto de docezza ’sta vita, mentre ve guardo e ve
possedo (e-book,
p. 58). La prima calzatura di Cenerentola non aveva
nulla a che fare con le scarpette o i sandali che ora
immaginiamo ai suoi piedi. Né lo chianiello
era particolarmente piccolo: nella fiaba si dice
semplicemente che nessun piede poté indossarlo, finché
non entrò nella reggia la sola che fino a quel momento
non vi era stata portata: come il ferro corre alla
calamita, così lo chianiello volò al piede di
Cenerentola, aderendovi alla perfezione.
Dattolo
mio ’naurato, La fata di
Perrault, che impone il limite della mezzanotte,
corrisponde a una Cenerentola più passiva, ma non per
questo meno affascinante, anche perché il trionfante
lieto fine è comune a tutte le versioni. Rispetto a
Basile una cosa importante si perde, vale a dire la
particolare sensibilità del re, che invita a pranzo
tutte le donne della città, …e nobele e
’gnobele, e ricche e pezziente, e vecchie e figliole,
e belle e brutte (ibid., p. 60). Prova a ciascuna
di loro lo
chianiello, ma non trovando la sua amata, ripete
l’invito a tutte le donne per l’indomani, e di nuovo
raccomanda che tutte, ma proprio tutte, vengano alla
reggia.
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Prezzemolina Torre della segregazione Quadrante sud-ovest |
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Fra le tante immagini che escono dalle fiabe per abitare il mondo, anche separate dalla loro storia, c'è Prezzemolina (Petrosinella per Basile, Rapunzel per i Grimm e per Disney) che ha capelli biondi splendenti come l'oro, e lunghi, tanto lunghi che l'orca li usa per salire fino alla sola finestrella della sua torre. La storia comincia con la madre che è incinta dell'attante protagonista, e cede alla voglia di prezzemolo. La superstizione delle voglie durante la gravidanza ha una lunga storia, e il danno che verrebbe dalle brame smodate della futura mamma appartiene alla convinzione che i danni al bambino prima della nascita dipendessero dalla sfrenata immaginazione delle gestante. Ma il prezzemolo appartiene all'orca di questa fiaba, e prendendolo più volte di nascosto la donna contrae un debito con lei. L'ingiunzione della segregazione apre la fiaba attraverso il patto fra la madre e l'orca, figura materna minacciosa e dotata di poteri magici, che ucciderebbe la donna se non le promettesse il frutto della sua gravidanza. L'orca esige la bambina quando ha compiuto sette anni, e costruisce per tenerla con sé la torre senza porte. La donna vecchia edifica la torre, che, simbolo di potenza fallica, si eleva verso l'alto, e tiene per sé la bambina. Grazie al vigore della giovinezza della sua prigioniera, i meravigliosi capelli, la vecchia può salire in alto, formando con lei una coppia separata dal resto del mondo. Ma nelle fiabe non c'è modo di impedire che la vita fluisca, e la maturità di Prezzemolina evoca il principe amante e amato, che si incanta per la bellezza dei capelli e del volto di lei. Il fascino e la potenza della chioma più lunga del mondo delle fiabe, finora utilizzati solo dall'orca per ascendere e unire la sua vecchiaia alla giovinezza, servono al principe che sale ed entra dalla piccola apertura, per progettare la fuga. Prezzemolina non ha passato invano il suo tempo con l'orca: conosce il sonnifero col quale potrà addormentarla, e ascoltando i discorsi dell'orca con una vicina scopre che ci sono tre ghiande con le quali la sua fuga potrà riuscire. Il principe porta una scala di corda, e dopo aver preso le tre ghiande i due giovani si danno alla fuga. L'orca li insegue, ma ogni volta che sta per raggiungerli una ghianda fa apparire tre animali. I primi due la fermano, il terzo la divora, e così i due giovani giungono sani e salvi nel regno di lui, dove si sposano per vivere felici e contenti. Il motivo di un'orca o di un'altra creatura misteriosa e inquietante che si appropria di una bambina non è raro, e la fiaba racconta di come crescendo l'attante protagonista dalla sua prigione conquisti un principe e possa abbandonare la minacciosa madre adottiva. Come l'orco in altre fiabe (La fiaba dell'orco), la creatura del mondo sotterraneo, che costringe un genitore a darle una sua figlia, si può rivelare una sorprendente educatrice, capace di insegnare la gratitudine alla fanciulla che ha tenuto con sé (vedi anche, ne Lo cunto de li cunti di Basile: Trattenemiento ottavo de la jornata primma, La facce de crapa) Dalla parte dell'attante materno questa fiaba pone una futura madre che non riuscendo a resistere alla sua voglia dà la figlia in balia dell'orca e l'orca stessa, che così possiede la sua giovinezza, dalla parte dell'attante filiale mette una fanciulla bellissima, come tutte le attanti protagoniste, e la dota di capelli talmente lunghi che rendono accessibile la cima della torre dove è cresciuta. Sarà la stessa orca a fornirle i mezzi per sconfiggerla, anche se involontariamente: le tre ghiande sono l'eredità magica destinate alla sua figlia adottiva, grazie alla quale può liberarsi. Come era apparsa sulla scena delle fiaba prima della sua nascita, l'orca scompare per consentirle di vivere felice col principe ereditario. (AG) |
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Vedi anche, in questo file, Un'antica voglia di prezzemolo. | |||||||||||||||||
La Bella
addormentata nel bosco Veliero della maledizione Quadrante sud-ovest |
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"La Bella Addormentata nel Bosco" insegna che un lungo periodo di quiescenza, di contemplazione e d'introspezione può produrre e spesso produce i massimi risultati. (Bettelheim, p. 218). Così Bruno Bettelheim interpreta il significato del sonno centenario e ne deduce che il bambino o la bambina ascoltando questa fiaba possono capire che attendere a lungo prima di incontrare sessualmente l'altro e generare non equivale a subire un danno. Secondo la sua interpretazione il trauma che induce il sonno dell'attante protagonista è l'arrivo delle mestruazioni, che equivarrebbero alla maledizione lanciata dalla tredicesima fata nella versione di Perrault. Quanto all'oggetto appuntito che la punge, il fuso nella versione di Perrault, una conocchia in quella dei Grimm, una resta di lino nella versione di Basile, Bettelheim lo legge senza esitazioni come simbolo fallico: A questo punto la storia abbonda di simbolismo freudiano. Nell'avvicinarsi al luogo fatidico, la ragazza sale per una scala a chiocciola; nei sogni queste scale rappresentano in modo tipico delle esperienze sessuali. In cima a questa scala essa trova una porticina con una chiave infilata nella toppa della serratura. Girata la chiave, la porta "si apre di scatto,” e la fanciulla entra in una stanzetta dove una vecchia è intenta a filare. Nei sogni una stanzetta chiusa a chiave rappresenta gli organi sessuali femminili; spesso l'atto di girare una chiave in una serratura simboleggia il rapporto sessuale. Quando la vecchia che fila, la ragazza le chiede: "Cos'è questa cosa che salta qua e là in modo così bizzarro?" Non ci vuole molta immaginazione per capire le possibili connotazioni sessuali della conocchia, ma non appena la ragazza la tocca si punge un dito, e cade addormentata (Bettelheim, p. 224). Nella mitologia, sia classica, sia medievale, la filatrice era Cloto, che estraeva il filo della vita, mentre la sorella Lachesi lo avvolgeva sul fuso determinandone la durata. La terza, Atropo lo tagliava, e il suo taglio corrispondeva alla morte. L'incontro della Bella Addormentata con la filatrice è il suo incontro con il mistero della nascita e della morte che si compie nella donna, che può mettere al mondo un bambino correndo un rischio che riguarda sia il bambino che la sua stessa persona. Il senso del tempo che deve passare, lunghissimo, un secolo, oppure indeterminato, come in Basile, incommensurabile, corrisponde all’impazienza di crescere, vale a dire di prendere il posto della madre, impadronendosi dei suoi beni, della sua seduttività e del possesso del padre amato. Lo stesso giorno in cui diventa una l'attante protagonista femminile accede al mistero della vita e della morte, e questo incontro precoce le impone di aspettare nel sonno che il giusto tempo sia trascorso. Sia nella storia di Basile che in quella di Charles Perrault, che fa parte di questa raccolta, il risveglio della protagonista femminile non coincide col lieto fine. Una figura materna persecutrice tenta di eliminare i suoi bambini e lei stessa, magari bruciandola sul rogo, come accadeva con le streghe e le donne colpevoli di eresia. I conti fra la discendente e l'ascendente non si possono chiudere col risveglio e l'unione col principe o col re. Questa fiaba riguarda il conflitto della figlia con la madre, del desiderio della figlia di prenderne il posto troppo presto, del desiderio della figura materna, la suocera, la regina madre del suo sposo, di vendicarsi contro la giovane bella e innocente per la sua vecchiaia. Nella versione che tutti ricordano è una fata, più vecchia delle altre e dimenticata, che vuole la morte della Bella Addormentata, e a niente vale il decreto paterno, che proibisce nel regno la filatura sperando di proteggere la principessa dalla sua precoce ascesa alla stanza dei segreti femminili. Quanto al fuso o alla conocchia, nel contesto tutto femminile in cui la fiaba presenta questi oggetti pare poco probabile che essi rappresentino il fallo maschile. Se poi pensiamo alla resta di lino, che nella versione di Basile Sole, Luna e Italia e nella più antica storia di Troilo e Zellandine, raccontata nel Roman de Perceforest, induce lo stesso lunghissimo sonno, è difficile vedervi un simbolo fallico. Si tratta piuttosto di espressioni del potere femminile - quello rappresentato dalle Parche, che non erano soggette neppure a Zeus - che hanno nel fuso o nella resta di lino il loro simbolismo, come penetrazione pungente e mortifera della dimensione tragica necessaria alla crescita. La parte della storia che segue il risveglio della Bella, soppressa dai Fratelli Grimm e assente in Disney come nelle versioni correnti, conferma che l'area del conflitto è fra madre e figlia. Del resto la maledizione della tredicesima fata, vendicativa perché vecchia e trascurata, segnala lo stesso tema anche nelle versioni in superficie meno cruente e più romantiche. Nella fiaba secentesca e nel romanzo Perceforest il risveglio non avviene per il bacio che riceve la protagonista durante il sonno, e anzi continua a dormire dopo che il suo visitatore l'ha posseduta e fecondata, e anche dopo il parto. È uno dei bambini venuti alla luce durante il sonno incantato che succhiandole un dito invece del capezzolo fa uscire la resta di lino o di canapa che aveva provocato il sonno. Il pieno risveglio erotico della donna può non avvenire col primo rapporto sessuale e nemmeno con molti rapporti. La gravidanza e il parto, esperienze fondamentali nella vita della donna, non appartengono però alla sfera erotica. L'amore per il figlio può svegliare la sua passione per la vita e il piacere legato al suo corpo, come un incontro passionale anche limitato nel tempo. Solo allora la donna si apre all'altro perdendo la propria verginità psichica, anche molto tempo dopo che ha perso quella fisica, e il suo desiderio si sveglia nel corpo come nella mente. Ma perché questo accada occorre che si dia un corpo a corpo con la figura materna, che da una parte è lesa dal desiderio della figlia di prevalere su lei, dall'altra gioca la sua partita cercando di impedire alla figlia di svegliarsi alla passione che la rende donna. (AG) |
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Nella
fortuna della Bella di questa fiaba, che dopo cent'anni si
sveglia per le scosse del principe innamorato che se la
sta portando a palazzo con tutta la bara (Rosaspina,
Fratelli Grimm,
1812)), o per il suo bacio (Sleeping
Beauty, Disney, 1959), o per uno dei gemelli
che cercando il seno succhia via la lisca dal suo dito,
dopo il parto seguito e il fecondo rapporto col re,
durante i quali Talia aveva continuato a dormire (Sole,
Luna e Talia, Basile 1634), con la grazia
intatta del suo quindicesimo o sedicesimo compleanno, c'è
qualcosa che ricorda il miracolo dei corpi intatti delle
sante cristiani. Corpi interi e parti dei corpi di santi e
sante sono venerati nelle chiese di tutto il mondo, come
il corpo di papa Giovanni XXIII, trovato intatto
dopo quasi otto lustri dalla morte. Il miracolo religioso dei corpi intatti migra dalla religione alle piccole fiabe, altrettanto potenti? Se leggiamo la versione di Perrault, sembra di sì.
(AG, 2 aprile 2023) |
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Sole,
Luna e Talia Veliero della maledizione Quadrante sud-ovest |
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Sole, Luna e Talia è la prima versione pubblicata al mondo della celebre fiaba della Bella Addormentata. La scrisse Giambattista Basile nel Seicento inserendola nella sua raccolta Lo cunto de li cunti, raccontando che alla nascita della piccola Italia, il padre chiama i sapienti e gli indovini perché predicano il suo destino: tutti concludono che la bambina correrà un pericolo mortale a causa di una lisca di lino. Il padre tenta allora di rimuovere questo cattivo destino, bandendo il lino dal suo palazzo. Ma, alla soglia dell’età adulta, Talia vede passare per strada una vecchia col fuso e, affascinata, le viene un gran desiderio di provare a filare, tanto che fa salire la vecchia in casa, e, presa la rocca in mano, cominciò a tendere il filo, ma una lisca di lino disgraziatamente le si infilò sotto l'unghia e cadde a terra morta. (e-book, p. 11) Come tutti i padri delle Belle Addormentate, anche il padre di Talia cerca di evitare l’avverarsi dell’infausta profezia che pende sul capo della figlia e anche lui fallisce: fuggire il destino, nelle fiabe, porta immancabilmente a incontrarlo. Possiamo leggere di un sonno fatale del tutto simile a quello raccontato da Basile nel Roman de Perceforest (XIV-XV sec.), un lunghissima opera in prosa che narra la storia di Inghilterra a partire da un mitico sbarco di Alessandro Magno sull’isola. Fra le molte storie, troviamo quella di Zellandina che un giorno, filando con le sue damigelle, inspiegabilmente cade addormentata. Sarà la zia, dopo il suo risveglio, a rivelarle che tre dee avevano presieduto alla sua venuta al mondo: Lucina, Venere e Temi che nel romanzo rappresentano rispettivamente la protettrice delle partorienti, l’amore e la generatività, e infine il destino. Dopo la sua nascita, le tre dee si erano sedute a una tavola superbamente imbandita apposta per loro e Temi, la dea del destino, si era ritrovata priva del coltello, che, senza che nessuno se ne accorgesse, era caduto per terra. Infastidita per questo fatto la dea, invece di una benedizione, aveva pronunciato una maledizione: ... dato che io sono quella che non ha avuto il coltello, le dò questo destino, che dal primo filo che tirerà dalla sua conocchia le entrerà nel dito una scheggia in modo tale che si addormenterà di colpo e non si sveglierà fino a quando non le sarà succhiata fuori. (Franci-Zago, p. 52) Ma la zia racconta a Zellandina anche che Venere si impegna a usare le proprie arti per far sì che la fanciulla sia svegliata, mitigando così la terribile sorte assegnatole da Temi. La maledizione della dea del destino dovuta a una casualità, presente nel romanzo francese, in Basile diventa un’impenetrabile cattiva sorte scritta nelle stelle, mentre, dopo di lui, Charles Perrault recupererà la storia della dea infastidita: nella Belle au bois dormant infatti si racconta di una fata dimenticata alla quale, quando si presenta al battesimo della bambina, non tocca il magnifico astuccio d’oro massiccio, che conteneva un cucchiaio, una forchetta e un coltello d’oro finissimo, tutti guarniti di diamanti e rubini. (e-book, pp. 9-11) Sul significato della fata di Perrault o del destino scritto nelle stelle di Basile rimandiamo alla nota di lettura della fiaba La Bella Addormentata nel bosco, ricordiamo qui che il sonno fatale della fanciulla è causato da oggetti tipici dei lavori femminili e che simbolicamente rimandano alle Parche, le dee che filavano il filo della vita umana, determinandone l’inizio, la durata e la fine. La fiaba della Bella Addormentata, in questo senso, racconta dell’incontro con la dimensione profonda della potenza femminile in cui si intrecciano vita e morte. Ma riprendiamo il filo della storia di Sole, Luna e Talia. Mentre dorme come morta, un re, durante una battuta di caccia, si trova a passare dal palazzo in cui giace la fanciulla dormiente. Incuriosito, il re entra, gira per le stanze deserte, finché non vede Italia, bellissima. Sulle prime la chiama e la scuote per svegliarla, ma poi, accesosi di passione per lei, coglie il frutto del suo amore. Nove mesi dopo, Italia, sempre dormendo, partorisce due bellissimi bambini, Sole e Luna, che, cercando il seno della madre, trovano il suo dito. Così, le succhiano via la lisca di lino e lei riapre gli occhi: l’esperienza della maternità consentita dall’incontro con il maschile porta Talia a risvegliarsi. Ma la fiaba non finisce qui: il cattivo destino si ripresenta ferocemente e Talia rischia di nuovo di morire. Come il Rajah che sveglia Surya Bai, infatti, il re che sveglia Talia ha già una moglie che intuisce il tradimento del marito. E come la fanciulla indiana non ha percezione del pericolo, così Talia non si fa domande: dopo un certo tempo dalla nascita dei suoi figli il re torna da lei, le racconta di come sono andate le cose quando l’ha trovata addormentata e, dice Basile, «fecero un’amicizia e un’alleanza grandi» (e-book, p. 19). Quando il re dopo qualche giorno se ne va, Talia non batte ciglio. È come se la storia ci dicesse che Talia non trova niente di strano nel fatto che il re la prenda e l’abbandoni a suo piacimento. E quando giunge da lei un servo a prendere i bambini dicendole che il re li vuole con sé a palazzo, lei di nuovo non si fa domande e glieli lascia portare via. Il servo in realtà è mandato dalla regina, che ordina al cuoco di uccidere Sole e Luna e cucinarli per cena, ma il cuoco in segreto scambia i bambini con due capretti. Poco tempo dopo la regina manda il servo da Italia per far venire lei stessa al castello e lei, tutta felice di poter finalmente rivedere il suo amore, parte all’istante. Ancora una volta non si fa nessuna domanda e finisce diritta nelle grinfie della regina. Di nuovo Talia si trova a confrontarsi con un potere femminile potenzialmente mortale: come la lisca di lino le aveva causato un sonno simile alla morte, così adesso la regina vuole ucciderla. Aiutanti fondamentali in entrambe le situazione sono gli attanti maschili: nella prima parte della storia il re, grazie al quale Talia partorisce i due figli che la svegliano, nella seconda parte il cuoco, che salva la vita ai bambini e a lei stessa, e nuovamente il re che, arrivando nel momento in cui la regina sta per gettare Talia nel fuoco, salva la fanciulla e punisce la cattiva. (CC) |
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Sfurtuna Veliero della maledizione Quadrante sud-ovest |
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Sfurtuna è una fiaba che cattura l’attenzione e il cuore dell’ascoltatore per la storia struggente, i personaggi dai vivi colori e la vitalità linguistica della versione siciliana raccolta da Giuseppe Pitré. Nella Carta fiabesca della successione, Sfurtuna è presente nel quadrante sud est: est in quanto l’attante protagonista è femminile, sud perché la questione che deve affrontare è insita nel suo rapporto con la figura genitoriale materna, rappresentata nella storia dalla mendicante che la indica come la causa della mala sorte della famiglia e dalla madre che la caccia di casa. E la fanciulla ha davvero una mala Sorte che la segue ovunque vada, come una maledizione che manda in rovina ogni cosa che fa. In questo senso l’ingiunzione alla quale appartiene la fiaba è il Veliero della maledizione. Ora, però, quando si sente completamente perduta, ecco che Sfurtuna incontra la Gnà Francisca che non la tratta da ospite estraneo, dandole un piatto di minestra e lasciandola sola, ma le offre di lavorare con lei, e cioè di lavare, stirare, inamidare i vestiti del Riuzzu. Le due donne lavorano insieme, e ogni settimana la Gnà Francisca porta i panni al Riuzzu che le dà in cambio il denaro con il quale la donna cucina del cibo e compra oggetti tipici femminili, abiti, pettini, creme di bellezza, da regalare alla Sorte di Sfurtuna. In questo modo la fiaba racconta di come, grazie alla mediazione di una figura materna donatrice, la fanciulla possa prendersi cura del maschile e di come da questa cura possa derivarne una ricchezza che, grazie ancora una volta all’azione della figura materna, può essere trasformata per consentire alla giovane di rapportarsi alla propria sorte facendone, da nemica che era, un’alleata. È la Sorte infatti che dona a Sfurtuna l’oggetto che le consente di incontrare finalmente il Riuzzu e sposarlo. Soffermiamoci per un momento su questo oggetto: si tratta di un palmo di gallone, un pezzo di passamaneria, un tessuto grande quando il palmo di una mano. Come può pesare più dell’oro? È magia, pensiamo mentre ci gustiamo la storia. E poi non ci pensiamo più: Sfurtuna entra bellissima nella sala del trono, fa la sua riverenza, racconta la sua storia e il Riuzzu ripaga, letteralmente, i danni della cattiva sorte della fanciulla. Poi i due si sposano e Sfurtuna ritrova sua madre. Al palmo di gallone non ci pensiamo più. Un po’ come Sfurtuna che, non conoscendone il valore, lo butta in fondo al canterano. Eppure, la magia di quell’oggetto è estremamente pregnante. Pensiamo al Riuzzu: può misurare ogni cosa, il valore del lavoro che viene svolto per lui e il valore di ciò che è stato rovinato, e non può misurare il valore di un semplice palmo di gallone? Sappiamo che in realtà non è così semplice. Sappiamo che quello è il dono che la Sorte fa a Sfurtuna e la profondità del suo significato sta nella profondità del rapporto che la fanciulla ha con la propria sorte, con quella parte di sé che ha il potere di indirizzare la sua vita, una parte evidentemente legata alla sua identità femminile: non solo la Sorte è un attante femminile nella storia, ma i doni che Sfurtuna le porta sono abiti e belletti. Il palmo di gallone quindi è intimamente connesso all’identità femminile della fanciulla. E, sembra dire la fiaba, un oggetto del genere non si può quantificare o misurare: il suo valore risiede in qualcosa d’altro, impalpabile come un tessuto leggero, prezioso come l’ornamento che manca ad un abito da sposa. (CC) |
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Surya
Bai Torre della segregazione Quadrante sud-ovest |
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Una madre, una povera lattaia, al ritorno
dal mercato si addormenta stanchissima sul ciglio
della strada. Ha con sé sua figlia di appena un anno
che, lasciata sola, viene rapita da due aquile che la
portano su un albero altissimo nel loro nido chiuso da
sette porte di ferro, e le danno il nome di Surya Bai,
Signora Sole. Lassù la bambina è allevata
amorevolmente dalle aquile che la ricoprono di vestiti
bellissimi e gioielli meravigliosi, ma non scende mai
dall’albero, né sa cosa ci sia fuori dal nido.
L’inizio di questa fiaba indiana ha un andamento
simile alla fiaba di Prezzemolina,
nella quale la madre, cedendo ad una voglia
irresistibile, lascia che la strega si porti via sua
figlia e la faccia vivere in una torre altissima che
ha un’unica finestrella. Come Prezzemolina, attante
protagonista di una delle cinquanta fiabe de Lo
cunto de li cunti di Giambattista
Basile, anche Surya Bai cresce quindi nella
condizione di segregata, a causa di un cedimento della
madre e, come quella di Prezzemolina, la storia di
Surya Bai appartiene all’ingiunzione della Torre della segregazione,
l’unica ingiunzione che si trova solo nel Quadrante Sud-Ovest, quello in cui le
attanti protagoniste sono femminili e le ingiunzioni
materne.
Lo sviluppo narrativo della storia indiana, però, introduce elementi diversi dalla storia di Basile e dalle altre versioni raccolte nei secoli successivi (ne citiamo una per tutte: Rapunzel, oggi molto conosciuta, grazie all’animazione della Disney del 2010, che ha rinarrato la storia in una variante contemporanea ). Surya Bai esce infatti dal suo nido fortificato da sola, per un bisogno legato al cibo. Quando le aquile partono per andare a cercarle un anello principesco da mettere al mignolo, Surya Bai rimane sola con una cagnolina e una gattina, la quale, dopo qualche giorno, ruba del cibo dalla dispensa. Surya Bai la punisce per questo, e la gatta, per vendicarsi, corre a spegnere il fuoco. Così Surya Bai, senza più pietanze e senza il fuoco per prepararle, non può mangiare, e decide di andare a cercare il fuoco. La fanciulla quindi esce dalla sua prigione senza alcun aiuto e senza aver conosciuto nessun altro se non figure genitoriali. E in un’altra figura genitoriale si imbatte: in un climax ascendente, dopo una madre che non è riuscita a proteggerla e due educatori che l’hanno tenuta rinchiusa, la fanciulla incontra ora una vecchia Raksha, un terribile demone che vuole mangiarla. Appena la vede, infatti, la vecchia le chiede di fare dei lavori per lei, perché aspetta il ritorno di suo figlio, anche lui un Raksha, che può uccidere Surya Bai in modo che lei possa cucinarla. La fanciulla non si rende conto di dove è capitata, svolge tutti i compiti assegnati, ma alla fine chiede il tizzone che la vecchia le ha promesso. Non potendo negarglielo, ma non essendo ancora tornato suo figlio, la Raksha le chiede di lasciar cadere dei chicchi di grano durante la via del ritorno per formare un sentiero fra le due case. La fanciulla, senza nulla temere, esegue anche questo compito e torna al suo nido sull’albero. Non conoscendo altro che la propria segregazione, al contrario di Prezzemolina che incontra un principe e, innamorata, desidera fuggire dalla torre, Surya Bai non può che tornare sull’albero altissimo, senza nemmeno pensare di scappare. Il figlio della vecchia Raksha intanto torna a casa e, saputo l’accaduto, percorre correndo la strada di chicchi di grano con l’intento di uccidere Surya Bai. Arrivato al nido delle aquile, tentando di entrare, percuote la porta esterna così forte da rompersi una delle sue unghie imbevute di veleno. Ma Surya Bai non sente niente, perché dorme oltre le sette porte. Chi ascolta questa storia a questo punto trae un sospiro di sollievo: la fanciulla è al sicuro e il demone non può raggiungerla, tanto che alla fine rinuncia e se ne va. Ma, come abbiamo detto, Surya Bai non ha percezione dei pericoli che corre e, al mattino, apre le porte del nido senza alcuna cautela e, trafitta dall’unghia avvelenata del Raksha, cade a terra morta. Nemmeno le sette porte di ferro del nido delle aquile hanno potuto proteggere Surya Bai, neanche i due educatori che ha trovato hanno potuto tenerla al sicuro. Ma questa non è la fine della fiaba e neanche del cammino di Surya Bai. Poco tempo dopo, infatti, un Rajah, durante la caccia, si ferma sotto l’albero altissimo e, incuriosito dal nido delle aquile, manda i suoi servitori per capire di che si tratta. Quando scopre che là si trova una splendida fanciulla, la fa trasportare fino a terra e, ammaliato dalla sua bellezza, le sfiora la mano e sente che c’è qualcosa che le si è conficcato nel palmo. E così, estraendo l’unghia del Raksha, il Rajah sveglia Surya Bai. Un risveglio, questo, del tutto simile a quello che accade alla protagonista di Biancaneve e i sette nani, de La scatola di cristallo e delle molte altre versioni diffuse in tutto il mondo (per le fiabe d’Italia vedi Nel bosco con Biancaneve, nel sito di Claudia Chellini Percorsi di pensiero, per altre versioni vedi il sito SurLa Lune ). In queste storie infatti la fanciulla si risveglia dal suo sonno fatale grazie al fatto che la madre del principe, toccandola, scioglie l’incantesimo dell’oggetto magico che l’ha fatta cedere morta. Nella fiaba indiana non è però una figura materna che la riporta in vita, ma il Rajah. In questo senso possiamo accostare a questo episodio quello del finale di Biancaneve e i sette nani dei Grimm, nel quale uno dei servitori del principe, seccato per dover trasportare la bara di cristallo ogni volta che il principe si allontana, tira su Biancaneve e le tira una manata sulla schiena facendole uscire il boccone avvelenato e risvegliandola. Certo, il gesto narrato dai Grimm non ha niente della delicatezza di quello del Rajah, ma in entrambe le storie l’attante maschile riesce a riportare in vita una fanciulla caduta morta a causa di una figura materna persecutoria. Quello che però la fiaba indiana ci racconta è che ciò non risolve la questione. Surya Bai, infatti, accetta di sposare il Rajah, che però ha una prima moglie (la prima Rani), ferocemente gelosa di Surya Bai che, a dispetto di quanto le è accaduto, non ha ancora imparato a riconoscere il pericolo. A nulla valgono gli avvertimenti della sua governante che la mette in guardia: [...] le diceva spesso: “Mia amata signora, non dovresti dare troppa confidenza alla prima Rani, perché lei non ti vuole bene, e ha il potere di farti del male. Uno di questi giorni potrebbe avvelenarti o recarti danno in qualche altro modo.” Ma Surya Bai le rispondeva così: “Sciocchezze! Di che si dovrebbe aver paura? Perché non potremmo vivere insieme felici come due sorelle?” (e-book, p. 43 ) Così, Surya Bai cade preda della prima moglie, che un giorno la annega dentro la vasca del cortile del palazzo. Il Rajah non sa nulla di tutto ciò e non può saperne nulla, perché si tratta di un corpo a corpo tutto al femminile, tra madre e figlia. Anche la prima moglie infatti ha fantasmaticamente i tratti di una figura materna: è la donna che la fanciulla trova già presente nella casa e nella vita del Rajah. E ricordiamo che Surya Bai è chiamata “la piccola Surya Bai”, come dire, la piccola di casa. Sospendiamo la narrazione e riprendiamo il filo della nostra riflessione. Abbiamo detto che la prima parte della fiaba indiana è analoga alla fiaba di Prezzemolina, ma se ne distanzia perché durante la propria prigionia Surya Bai non incontra il maschile, che è decisivo per Prezzemolina. Cosa significa? È una mera questione di fortuna? Pensiamo alla storia indiana: la fanciulla può uscire dalla propria prigione, ma il mondo che trova fuori non le interessa, anzi è pericoloso: è ancora tutta compresa in uno stato infantile in cui l’unico amore, l’unico bene è nella relazione genitoriale, rappresentato nella storia dal nido al quale Surya Bai ritorna. Quando Prezzemolina incontra il principe, invece, il tempo della reclusione protetta si è già compiuto e il suo innamoramento mette in scena proprio il fatto che ciò che è fuori dalla torre le appare così desiderabile da riuscire a sottrarre gli oggetti alla strega per fuggire. Certo, anche la strega mette in atto una rappresaglia inseguendo Prezzemolina e il principe, ma ormai sappiamo che la fanciulla ce la farà. Non essendosi ancora compiuto questo tempo per Surya Bai, capiamo perché la giovane indiana prima torna nel luogo in cui si sente protetta e poi soccombe all’emissario della vecchia Raksha. E capiamo anche perché il risveglio del Rajah non è risolutore: Surya Bai non è ancora pronta per il mondo esterno e ciò che trova è un altro luogo fatale, come la casa del terribile demone. Così, muore annegata. Ma, come la fata della fiabe de I tre cedri, la fanciulla rinasce, più volte, a nuova vita. Nel punto in cui è annegata Surya Bai, infatti, spunta un girasole e il Rajah, disperato per la scomparsa della sua amata, quando lo vede rimane incantato, perché gli ricorda Surya Bai. Allora la prima moglie lo fa tagliare e bruciare. Ma dalla sue ceneri, nella jungla, rinasce uno splendido albero di mango sul quale spunta un fiore che dà origine ad un frutto che cresce sempre più rosa e sempre più grande, fino a che diventò a dir poco magnifico, sia per le sue dimensioni che per sua la forma, tanto che la gente arrivava da vicino e da lontano solo per ammirarlo. Ma nessuno osava coglierlo, perché doveva essere lasciato al Rajah. (e-book, p. 57 ) Un giorno la povera lattaia madre di Surya Bai, tornando dal mercato, si ferma stanchissima sotto l’albero di mango e si addormenta. Ecco che il mango cade in uno dei suoi vasi e la donna decide di portarlo via, di nascosto per non essere accusata di averlo rubato al Rajah. Una volta arrivata a casa lo nasconde dietro agli altri bidoni e racconta l’accaduto al marito e ai suoi sette figli, chiedendo loro di andarlo a prendere per poterlo mangiare insieme. Ma dentro al vaso i giovani non trovano il mango, trovano invece una donna piccina piccina, abbigliata come una principessa. La lattaia decide allora di tenerla come una figlia e la donna cresce velocemente fino ad assumere la statura di un’adulta, sempre amabile e gentile, ma triste e silenziosa. La lattaia decide di non chiederle niente e Surya Bai non racconta a nessuno la sua storia: dopo essere rinata presso la madre, ora ritrovata nella sua funzione donatrice, finalmente la fanciulla ha imparato a proteggersi. Un giorno il Rajah, passando a cavallo, vede Surya Bai al pozzo ad attingere l’acqua e la riconosce, ma la fanciulla spaventata corre a chiudersi dentro casa. Il Rajah la insegue, ma, arrivato davanti alla porta, trova la lattaia che non solo gli dice che quella è sua figlia e che non gliela darà certo al suo comando, ma arriva a minacciarlo con un bastone. Il Rajah allora torna a palazzo e, per sciogliere ogni dubbio, va a trovare la governante di Surya Bai che aveva messo in prigione, perché la prima moglie l’aveva accusata della scomparsa della ragazza. La governante gli racconta tutto e il Rajah le chiede di diventare amica della lattaia per scoprire come stanno le cose. Finalmente anche la seconda figura materna donatrice è libera di agire e si allea con l’altra, la madre di Surya Bai: adesso sappiamo che la fanciulla potrà ritrovare il suo amore e vivere, stavolta, felice e contenta. (CC) |
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Re Porco Veliero della maledizione Quadrante sud-est |
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Questa, come La bella e la bestia che può appartenere allo stesso tipo, è la fiaba della bellezza che diventa feconda solo unendosi al suo opposto, deforme o animale. Gli antichi greci lo sapevano, visto che il marito della bellissima dea dell’amore Afrodite era lo storpio dio fabbro Efesto. In termini psicologici, la fiaba racconta della separazione fra questa bellezza ideale – rappresentata dalla regina sterile, che riceve per magia la gravidanza e una bellezza perfetta e inviolabile – e la condizione animale del porco, che ama la sporcizia, e che nel linguaggio comune designa chi mangia o fa sesso smodatamente. La maledizione passa attraverso la madre, che da sterile diventa gravida, bellissima e inviolabile: femminilità perfetta che però deve dare alla luce un figlio suino. L'attante protagonista maschile dovrà a sua volta ottenere l’amore di una fanciulla per poter avere la sua forma umana. Si inscrive quindi nel quadrante sud-est. Un gruppo di insegnanti di terza e quarta elementare della Romagna, seguendo le mie indicazioni, hanno raccontato questa fiaba ai loro alunni, che a loro volta hanno rinarrato o disegnato quel che volevano del Re Porco (vedi anche, per il lavoro nella scuola: Adalinda Gasparini, Re porco e i bambini narratori,1997, [la versione narrata nel lavoro in argomento è Il Re Porco di Vittorio Imbriani]; L’orologio e la gemma, ovvero la cotica clamorosa, 1999; Favole a scuola all'ombra della psicoanalisi, 2003; Fiaba, psicoanalisi e apprendimento, 2003). Ripercorriamo questa fiaba con le espressioni dei bambini, qui riportate senza modifiche o correzioni, sperando che la loro immediatezza ne illustri la ricchezza nel migliore dei modi. Una bambina disegna la scena iniziale, con la regina e una sola fata, entrambe magrissime. Ma sull'abito della regina ci sono tanti fiori quanti sulla Primavera di Botticelli, e la fata ha grandi ali. Così è scritto nella didascalia: E' il momento che mi è piaciuto di più perché mi sembra impossibile che la fata possa leggere nel futuro. I bambini distinguono perfettamente il mondo della favola e quello della realtà, e in questo caso il piacere della magia che permette alla fata di anticipare gli snodi della storia è espresso insieme alla consapevolezza della sua impossibilità. Il tema dell’accoglienza della parte animale comincia dai genitori: quando la regina dà alla luce un porcellino il re padre prima pensa di buttarlo in mare perché non ne venga danno alla regina, ma poi, pensando che per quanto brutto è sempre figlio suo, decide di farlo allevare come si deve. Questo è il primo senso dell'amore, il solo che quieta: che i bambini sappiano di essere amati dai genitori anzitutto perché sono i loro bambini, non perché si mostrano adeguati a un'aspettativa più o meno sensata. Perfino nascendo con le zanne e la cotica (la pelle del porco) si può essere amati: La principessa fa i complimenti a suo figlio anche se non è poi così perfetto: - Sei carino! lo sai? - Grazie! Un altro bambino disegna il re che accarezza suo figlio, accanto al quale c’è un cartello con la scritta MAIALE. C’è il fumetto con le parole del padre: “Ciao ciao bello amore del papà” Una bambina disegna il porcello che tornando tutto sporco a palazzo va dalla madre che siede sul trono sorridente ed elegante, e scrive: Il porco saltava in braccio alla sua mamma e con il suo grugnetto la baciava. Un bambino scrive del porcello che va dalla regina madre a chiederle una sposa, senza dimenticare l’inadeguatezza del principe, che entrando nel palazzo: ...perse tutto il letame dietro di sé. Con quella specie di disgustosa incontinenza il principe animale difficilmente riuscirebbe a trovar moglie, e la sua regale madre non è affatto incoraggiante: ...la regina rispose che il porco era stupido e che nessuno volesse sposarlo perché era sudicio sporco e puzzolente. Alla non accettazione delle prime due spose, che nascondono un pugnale sotto il cuscino per farlo fuori, corrisponde la violenza del porco, che le trafigge con le zanne. La maggioranza dei bambini maschi, sia delle elementari che della scuola media inferiore, rappresenta la scena dell’uccisione con le spose che giacciono sul lettone a pancia in su, prima o dopo l'atto violento, con ferite sanguinanti che per la loro ubicazione, il petto o l'area genitale, non lasciano dubbi, come non lasciano dubbi le braccia aperte e il volto in qualche caso sorridente. Il porco, grosso e ghignante, o minuscolo e spaurito, guarda la sposa che sta per trafiggere o che ha appena trafitto brandendo un pugnale, una spada, un oggetto che non lascia dubbi sul suo significato simbolico. In uno di questi disegni il porco, colorato di un bel rosa acceso, si avvicina al letto matrimoniale, mentre la sposa col suo pugnale nascosto spera di fermarlo: GRU! GRU! GRU! ADESSO LO MMAZZO! EH, EH!!! In un altro disegno la sposa dice al porco che si avvicina al letto: sei troppo pusolente. È solo l'accoglienza della parte animale, raccontano i bambini come gli antichi narratori, a permettere la trasformazione della violenza in un abbraccio umanizzante. La terza moglie, che non porta il pugnale per uccidere la bestia, può anche non essere proprio tranquilla, come racconta una bambina di terza elementare: Alla prima notte lei aveva paura ma quando arrivò si scrollò di dosso la pelle e venne fuori un bellissimo fanciulo. Un bambino scrive: Ma però quando il porco andava a letto Rosa bianca lo copriva. E un altro: Quando vide una fanciulla così ma così bella sporco e puzzolente prese la rincorsa e le girò intorno lei la fanciulla si chinò e lo grattava e la regina li disse con la fanciulla ma non lo metti da parte e le rispose di no, lo baciò e lo accarezzò. La notte la fanciulla lo tenne forte, la notte seguente si tolse la pelle da porco e vienì fuori un giovane bellissimo e vissero insieme felici e contenti. Un bambino disegna la stanza matrimoniale, fornita di comodini e armadio quattro stagioni, con la sposa già a letto, che lo accoglie: Amore mio sdraiati vicino a me. E lui, che è proprio un porcello, per quanto incoronato, si alza sulle zampe posteriori e dice: Puu! Puu! mia dolcezza. La bambina che parla ora coglie la relazione tra ciò che è repellente e ciò che è bellissimo, ed esprime il suo apprezzamento per la fiaba senza dimenticare la realtà: Io avrei voluto essere Rosabianca perché ha voluto amare il porco anche se era sporco e puzzulente, ma alla fine ha avuto il meglio. A me ha colpito molto quando c'erano le fate perché fanno gli incantesimi, perché nel mondo vero la magia non esiste e a me piacerebbe ancora un mondo dove ci fossero le fate a fare gli incantesimi. L’incredibile miracolo dell'incontro, e l'umanizzazione che ne consegue, avviene con magica facilità, come raccontano alcuni bambini: ...e così il Porco si levò le pelli lerce e diventò un bellissimo principe ... alla notte, all'ora dell'ultimo sonno, Principe Porco si toglieva la cotica ... la sposa Rosabianca rimase sorpresa dalla belezza del Re Porco e infilandosi sotto le coperte la Regina Rosabianca lo abbracciò con amore La fiaba racconta che per un certo tempo Rosabianca tenne per sé il segreto della metamorfosi notturna del porco in principe, ma poi volle che lo sapessero anche il re e la regina, che di notte fecero visita alla giovane coppia. Nel disegno di un altro bambino si vedono i regali genitori entrare furtivi come ladri, con due grosse pile che illuminano il letto dove dormono il loro figlio e Rosabianca. All’appendiabiti vediamo jeans, camicie, manti guarniti di ermellino e due corone. La fiaba cinquecentesca racconta delle torce che accesero i regali genitori, e il bambino ha disegnato le sole torce che conosce. La sostanza non cambia se varia un po' il nome della protagonista, cosa che capita regolarmente nelle fiabe, e la grazia espressiva non soffre se la sintassi e l'ortografia non sono perfette: Rosa bella disse con la Regina e il Re che Re porco di notte si togliesse la pelle sporta di letame e se la togliesse per andare a letto. Il Re e la Regina con il lumino e andarono a vedere e videro che la pelle di letame sul pavimento. Il re e la regina al lume delle torce, o delle pile, trovano la pelle porcina, o cotica, sul pavimento, e dopo averla fatta distruggere abdicano in favore del loro splendido discendente. Il principe era ormai bello, e, come ha scritto un bambino, virturioso. Una bambina ha raccontato così la felicità dell’alternanza delle generazioni: ...al mattino dopo il re fece sedere sul trono il Principe che nominò Re Porco davanti alla folla clamorosa. (AG) |
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Rosaspina Patibolo della condanna a morte Quadrante sud-ovest |
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Rosaspina, narrata dai Fratelli
Grimm fin dalla prima edizione delle Fiabe del
focolare nel 1812, è la versione oggi più
conosciuta della fiaba della Bella Addormentata. Poiché
l’ingiunzione dalla quale origina la storia è la
scagliata dalla vecchia fata, che è una figura
genitoriale materna, Rosaspina, nella Carta
fiabesca della successione si trova, insieme
alle altre storie dello stesso tipo, nel quadrante
Sud-Ovest, tra le fiabe dell’ingiunzione del Veliero
della maledizione.
Prima che la rinarrassero i Grimm, la fiaba della Bella addormentata era già presente nelle opere di due grandi narratori: Giambattista Basile, che nel Seicento inventò il genere fiaba, e Charles Perrault, che circa cinquant’anni dopo rese le fiabe la forma narrativa più amata alla corte del Re Sole. La storia di Rosaspina è analoga a quelle di Sole, Luna e Talia di Basile e de La belle au bois dormant di Perrault: una maledizione iniziale, l’oggetto appuntito (collegato alle arti femminili della filatura) che fa cadere la fanciulla in un sonno fatale e un giovane di stirpe regale che penetra la vegetazione che protegge il castello fino a raggiungere la bella che giace addormentata. Da qui la storia tedesca diverge dalle altre due. Talia infatti si sveglia nove mesi dopo l’incontro con l’amato ed è il figlio che, cercando il suo seno, trova il suo dito e le succhia via la lisca di lino che l’aveva fatta cadere come morta; la bella di Perrault si sveglia invece perché sono passati cento anni e aprendo gli occhi trova il principe che la rimira. In entrambi i casi l’incontro con il protagonista maschile non conclude la storia: la minaccia di morte insita nella maledizione iniziale torna, infatti, sotto un’altra e ancora più pericolosa forma. E fino all’ultimo non siamo sicuri che la storia avrà un lieto fine. Rosaspina invece è svegliata dal principe che fu tanto colpito dalla sua bellezza che si chinò a baciarla, e come Rosaspina si svegliò, il re e la regina e tutta la corte e i cavalli e i cani e i piccioni sui tetti e le mosche sui muri si svegliarono, il fuoco tremolò e tornò a divampare, le carni completarono la cottura, il cuoco dette uno schiaffo al garzone e la cameriera finì di spennare il pollo. Allora il principe e Rosaspina si sposarono, e vissero per sempre felici e contenti. (e-book, p. 45) Leggendo in parallelo Rosaspina e La belle au bois dormant ci si rende conto che, come scrive Calvino nelle ricchissime note delle sue Fiabe italiane, «la Rosaspina del Grimm deriva dal Perrault» (p. 1146). Ma risulta evidente anche che i Grimm concludono la storia a metà della narrazione. La storia della Bella addormentata, infatti, si intreccia nei Grimm con quella di un personaggio presente in tutta la mitologia nordica, come fanciulla guerriera o valchiria, chiamata Sigrdrífa in norreno e più conosciuta con il nome tedesco di Brunilde. Nell’Edda poetica, raccolta di poemi in norreno, tratti dal manoscritto medioevale islandese Codex Regius del XIII secolo, si racconta che Sigrdrífa/Brunilde viene severamente punita dal dio Óðinn (Odino, Wotan in tedesco) per aver difeso un guerriero a lui inviso. Óðinn per vendicarsi di ciò la punse con la sua lancia del sonno e disse che non avrebbe più portato vittoria in combattimento e che si sarebbe sposata - “ ma io gli risposi che ero legata da un giuramento per il quale non avrei mai sposato un uomo che provi paura.” (Sigrdrífumál - Il Discorso di Sigrdrífa, in Norrœnn Forn Siðr - Antica Via Norrena) Brunilde quindi non è maledetta da una figura materna (la fata dimenticata), ma è punita da una figura paterna (Odino, potente dio chiamato anche Padre degli Dei) che sanziona un comportamento deviante rispetto alle regole da lui imposte. Lo sviluppo narrativo del mito procede coerentemente da questo inizio. La punizione di Odino non si esaurisce nel sonno fatato: il dio, infatti, impone alla vergine guerriera di sposarsi, cioè di rinunciare alla sua libertà per sottomettersi all’ordine patriarcale, e il suo sonno in un castello inaccessibile si configura come la prova che l’eroe deve affrontare per ottenerla. Si tratta di una storia ben diversa da quella di Rosaspina in cui, come abbiamo detto, il sonno simile alla morte è causato da una figura materna, mentre l’unica attività del padre è quella di bruciare tutti gli arcolai nell’inutile tentativo di evitare l’avverarsi della maledizione. La vicenda della fiaba narra di una questione al femminile, mentre il mito racconta delle conseguenze di un’azione che infrange l’ordine patriarcale. L’una origina da un’ingiunzione materna, l’altro da una paterna. Utilizzando la mappa disegnata nella Carta fiabesca della successione, potremmo dire che l’una si trova a sud e l’altro a nord. È vero che mito e fiaba sono due tipi di narrazioni diverse, che si formano in momenti storici diversi e articolano questioni diverse, ma è anche vero che alcuni motivi che troviamo nelle fiabe li troviamo anche nel mito: il sonno simile alla morte ne è un esempio. Ma, come abbiamo accennato confrontando Panepinto con il Re Porco fiorentino, i motivi sono polisemici e i loro significati si chiariscono nel contesto della storia in cui si trovano. La storia di Brunilde, vergine guerriera punita dal padre per aver disatteso un suo ordine, come abbiamo detto ha un altro andamento da quella di Rosaspina destinata a imbattersi in quell’intreccio di vita e morte che attiene al mistero del femminile e che le fiaba rappresenta come la maledizione della fata (per ulteriori note di lettura sul tema della maledizione vedi La Bella Addormentata). Sappiamo che le Fiabe del focolare hanno avuto molte edizioni, la prima è del 1812 e l’ultima del 1857. Sappiamo che, fra gli obiettivi che i Grimm avevano nel comporre la loro raccolta, c’era anche quello patriottico di mostrare lo spirito della nazione tedesca in un momento storico in cui ancora la Germania non era stata unificata. Ma sappiamo anche che i due studiosi conoscevano Straparola, Basile e Perrault che rappresentano alcune delle loro fonti principali. Come abbiano pensato che Brunilde e Rosaspina si somigliassero invece non lo sappiamo. Dalle loro note possiamo vedere solo che questa associazione c’è stata. Crediamo che la fiaba originata da questa commistione risulti un po’ impoverita rispetto alla versione napoletana e a quella francese non solo perché esclude la seconda parte della storia, ma anche e soprattutto perché sovrappone la figura del principe a quella dell’eroe del mito (Sigurðr nella versione norrena, Sigfrido in quella tedesca). In quest’ultimo all’ingiunzione di una figura paterna che impone il sonno come una prova corrisponde coerentemente l’azione liberatrice di un personaggio maschile. Nelle versioni della Bella Addormentata precedenti i Grimm, invece, la maledizione materna viene spezzata attraverso attività profondamente connesse proprio con la maternità, non più subita ma agita, l’azione di un figlio o l’attesa di un tempo stabilito, mentre l’attante maschile ha il fondamentale ruolo di aiutante, di mediatore, ma non di risolutore. Almeno nella prima parte della storia. Combinando le due storie e trattandole come se fossero la stessa storia, i Grimm cambiano radicalmente il ruolo dell’attante maschile e gli conferiscono il potere di sciogliere un nodo tutto interno alla sfera del femminile. In questo modo il significato profondo dell’incontro della fanciulla con il destino, con le Parche, viene rimosso dai narratori come lo era stato dai regali genitori di Rosaspina. E come nella fiaba la vecchia fata si presenta scagliando la famosa maledizione, così nelle narrazioni contemporanee torna ancora più potente e distruttiva, diventando lei stessa la protagonista della storia. Il remake della Disney dell’animazione La Bella Addormentata nel bosco (Geronimi-Larson-Reitherman-Clark, US, 1959) ne è un esempio paradigmatico: il film si intitola Maleficent (Stromberg, US, 2014), che è il nome che Disney aveva dato nel ’59 alla fata dimenticata, e racconta la vicenda della «più forte delle fate», generosa protettrice del mondo delle creature magiche, mortifera e distruttrice quando viene tradita. La sua figura domina l’intera storia, non soltanto perché ne è la protagonista, ma perché il suo potere è assoluto. Nessuno può sconfiggerla: non può farlo il padre della Bella Addormentata, Stefano, che tenta due volte di ucciderla senza riuscirci, e non può farlo il principe che bacia Aurora, la fanciulla senza svegliarla. Solo Malefica può spezzare la maledizione che lei stessa ha scagliato, con un tenero bacio materno sulla fronte di Aurora. Nel film, infatti, non si narra solo della trasformazione di Malefica da giovanissima fata buona a terribile persecutrice a causa del tradimento dell’uomo che ama, ma anche di come la fata segua da vicino la crescita della bambina che ha maledetto e di come questo riaccenda in lei il sentimento dell’amore che porta al lieto fine della vicenda. La storia, quindi, è giocata nella sfera del femminile, come lo è nelle fiabe di Basile e di Perrault. Ma con una variante fondamentale, perché nel film, a differenza di quanto accade nelle fiabe, la persecutrice è onnipotente mentre i personaggi maschili impotenti. In Rosaspina viene rimosso il potere misterioso del femminile che fa cadere come morta e poi risveglia la fanciulla che si affaccia all’età adulta, in Maleficent questo potere torna temibile e distruttivo in una storia che si conclude con una rinnovata alleanza femminile fra Malefica ormai tornata buona e Aurora incoronata regina del mondo magico dalla fata in una scena idilliaca che prevede la presenza di un unico personaggio maschile, il principe, un giovanissimo principe che con il suo bacio non ha saputo risvegliare la Bella Addormentata. (CC) Per approfondimenti su Maleficent e altre narrazioni fiabesche contemporanee vedi Maleficent & Co. Le dilaganti trasposizioni cinematografiche e televisive delle più famose storie fiabesche, in LIBER, 105/2015.) Vedi anche l'e-kamishibai di Rosaspina accessibile dalla carta della fiaba. |
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Biancaneve
e i sette nani Patibolo della condanna a morte Quadrante sud-ovest |
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Quando i Fratelli Grimm pubblicarono per la prima volta le loro fiabe popolari, nel 1812, Biancaneve si rifugiava dai sette nani per sfuggire alla madre, non alla matrigna. Nelle edizioni successive resero un po' meno esplicita la rappresentazione della violenza mortale nel rapporto fra madre e figlia trasformando la futura Grimilde in matrigna. La separazione fra madre buona, che fa vivere, e madre cattiva, che fa morire, risponde alla necessità di combattere in una direzione e trovare rifugio nella direzione opposta. L'aggressività ricorrente fra suocere e nuore alleggerisce i conflitti fra madri e figlie. Ma esiste un luogo della mente nel quale questa separazione non è ancora avvenuta, nell'infanzia o nell'età adulta, ricco di minacce come di promesse, come la casa della baba-yaga nelle fiabe russe o la dimora delle fate nella storia del Gatto Mammone. La parte più fluida e vitale di ogni rapporto non ha un colore solo, né colori armonicamente accostati. È una tavolozza disordinata dalla quale il pittore, il soggetto, può ricavare qualunque colore, in tutte le sue sfumature, per dipingere un capolavoro, e allo stesso tempo può confonderli malamente ricavandone una miscela nerastra, una massa indistinta, una confusa congeries, per dirla con Apuleio. La strategia pedagogica che ha idealizzato l'infanzia come età dell'innocenza, ha pietosamente eufemizzato le fiabe antiche e popolari velando la profonda violenza che la loro superficie significava. Ma una bambina può vivere in totale solitudine la percezione della minaccia materna, cercando di mitigarla con fobie e rituali ossessivi, come il pavor nocturnus provocato dalla statuette di plastica fosforescente della Madonna di Lourdes, contenenti acqua benedetta, che negli anni Cinquanta e Sessanta si trovavano sui comodini delle bambine. A chi una bambina può dire che ha paura della Madonna? Può dire alla mamma che ha paura di lei? Può dirlo a se stessa? C'era una volta, non ora, in un tempo abbastanza lontano perché non se ne abbiano testimoni diretti, una regina che aveva desiderato una figlia, e il suo desiderio era stato esaudito. Ma quando la bambina dai capelli neri come l'ebano, bianca come la neve e rossa come il sangue era cresciuta, la sua bellezza aveva terrorizzato la madre, perché avrebbe messo fine al suo primato. Da una parte la nuova generazione sa che prenderà il posto della vecchia, come la vecchia generazione sa che lascerà il posto e tutto quello che ha alla giovane generazione. D'altra parte questa legge naturale, per la quale la figlia si fa più bella mano a mano che la bellezza della madre sfiorisce, appare inaccettabile, e il solo modo di scongiurare la propria decadenza è per la madre coincidere con la figlia (è quel che accade in Pelle d'asino) che è un modo di eliminare la figlia come altro da sé, come essere con una vita autonoma. Al posto di un'inevitabile successione temporale si pone una successione causale: non è la figlia che succede alla madre per l'irreversibilità del tempo, ma la figlia che uccide la madre. Uccidere la figlia è allora il metodo per non sfiorire, per non morire. Lo specchio dal quale la regina madre e matrigna di Biancaneve si fa guidare rimanda al tema del narcisismo, che irrigidisce l'essere in una forma che permane e vive nella misura in cui non viene neppure sfiorata dall'altro. È un dramma che in misura accettabile o inaccettabile riguarda ogni coppia madre-figlia, che la fiaba mette in gioco con una sapienza millenaria, in un tempo e in un luogo lontani, tanto lontani che né il narratore né l'ascoltatore o il lettore sono costretti a riconoscere il proprio conflitto, la propria distruttività, se non possono o non vogliono. La morte della regina-madre, che precipiti in un burrone inseguita dai sette nani, o che sia costretta a danzare fino a morirne con un paio di scarpe di ferro rovente, non è una crudele punizione, ma il destino inevitabile per ogni madre: di non sopravvivere alla figlia. E d'altra parte nessun genitore che sia appena un po' sano di mente desidera vivere la morte dei propri figli. Nessuna indicazione pedagogica può essere tratta dalla fiaba, se non si vuole banalizzarla o impoverirne il senso. Qualunque tentativo di fermare il tempo, di impedire la successione, fallisce, è una legge naturale allo stesso tempo accettabile e inaccettabile, che nella fiaba, come nella vita, prevale. Se c'è una morale nella favola, è nel racconto stesso, da intendere nella sua essenziale semplicità: la vecchia generazione scompare mentre la nuova generazione ascende al trono senza che qualcuno possa impedirlo. La figlia è troppo vicina alla madre, e la madre alla figlia, perché possano evitare di toccarsi: il loro corpo a corpo amoroso e conflittuale è essenziale perché la vita fluisca, ma è altrettanto essenziale che possano sciogliere il nodo che le unisce. Infine una notazione sulla prima versione dei Fratelli Grimm, che abbiamo scelto per Fabulando, nella quale la regina madre di Biancaneve non è uno stereotipo diabolico della cattiveria assassina come Grimilde nel film di Walt Disney, che ha semplificato la seconda versione della raccolta tedesca. Ogni volta che lo specchio le dice che non è più lei la più bella, la regina è in qualche modo sconvolta dalla rivelazione: A queste parole la regina diventò livida d'invidia... La regina rabbrividì a queste parole... La regina provò una collera così paurosa che tutto il sangue le gonfiò il cuore... Quando risentì queste parole la regina rabbrividì, e scossa dalla collera gridò... A queste parole la regina rimase inorridita, ed ebbe tanta paura, una paura tale che non riuscì a dire nemmeno una parola... Questo terrore riguarda la madre che non vuole invecchiare come la figlia che vuole prendere il suo posto, perché la madre vorrebbe arrestare il flusso temporale, mentre la figlia vorrebbe accelerarlo. Di solito entrambe vedono la distruttività dell'altra e ignorano la propria, tanto che a qualunque età ci si identifica con Biancaneve, mentre la madre assassina è la propria immancabile persecutrice. (Per approfondimenti e altre versioni della fiaba, vedi il sito di Claudia Chellini, Percorsi di pensiero, Nel bosco con Biancaneve) (AG) Di questa fiaba esiste anche l'e-kamishibai, accessibile dalla carta della fiaba. Per le origini, i significati e le implicazioni dell'unione dei colori bianco (come neve, marmo, latte, ricotta) e rosso (sangue), accompagnati a volte dal nero (come il piumaggio del corvo, come l'ebano) vedi una Comparazione delle fiabe seguenti: La principessa di Vallepelosa, storia cornice del Cunto de li cunti; Il Corvo (Cunto de li cunti); I tre cedri (Cunto de li cunti); Biancaneve e i sette nani (Fratelli Grimm 1812); La culumbena bianca, storia popolare raccolta in Romagna; La fola di Bianca come neve rossa come sangue, storia popolare raccolta in Emilia, Le ultime due fiabe, come la Comparazione, si trovano nel sito di Adalinda Gasparini Psicoanalisi e favole. |
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La
scatola di cristallo Patibolo della condanna a morte Quadrante sud-ovest |
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Tra le fiabe dell’ingiunzione del Patibolo della condanna a morte troviamo La scatola di cristallo, una variante della più famosa fiaba di Biancaneve. La storia, infatti, narra di Ermellina, una fanciulla vessata da una matrigna che la espone continuamente al pericolo di morte. L’ingiunzione dunque è materna e l’attante protagonista femminile: la storia si trova infatti nel quadrante sud ovest. Un giorno un’aquila si presenta da Ermellina per portarla via di lì e condurla dove vivono tre fate che la accolgono nella loro casa, si prendono cura di lei e la avvertono di non aprire a nessuno quando loro sono lontane. La storia prosegue con un andamento dello stesso tipo della Biancaneve dei fratelli Grimm. Ma l’incontro con il principe, che in questo caso è un re, non è la conclusione della fiaba: come accade nelle moltissime versioni narrate nei dialetti d’Italia e nelle lingue d’Europa (vedi nel sito di Claudia Chellini, Percorsi di pensiero, Nel bosco con Biancaneve), il re vede la fanciulla e se ne innamora e, così com’è nella bara di cristallo, la porta nel suo castello, la colloca nella sua camera e non se ne allontana mai. Quando deve partire per la guerra, affida la fanciulla a sua madre imponendole di prendersene cura, pena la morte. La regina però se ne dimentica, fino al giorno in cui riceve la lettera del figlio che sta tornando vincitore. Ordina allora alle sue cameriere di ripulire dalla polvere la fanciulla che giace nella bara, e loro prendono una spugna per lavarle il viso, ma alcune gocce cadono sul vestito e lo macchiano. La regina decide quindi di togliere a Ermellina quell’abito e fargliene indossare uno nuovo. Così fu stabilito : vanno le camerière alla càmera e cominciarono a sfibbiarli il vestito. Al momento che li levano la prima mànica, quella aprì li òcchi. Quelle pòvere camerière fecero un salto per aria, e tutte spaventate ’un sapevano che si fare più, si trovavano confuse. Una delle più coraggiose dice : — „Dònna sono io e dònna è questa : mangiare, non mi mangerà...“ Per farlo brève il discorso, questa li levò il vestito ; quando li fu levato il vestito di indòsso cominciò a scéndere dalla scàtola, e camminare, e guardava indov’ èra. Le camerière si buttarano in ginocchioni a lei e li chiedevano per grazia di saper dire chi èra. E lei, poverina, li fece tutto il racconto (e-book, pp. 64-66). Ermellina così torna in vita e può finalmente sposare il suo re. La vivacità e la freschezza che caratterizzano questa fiaba sono senza dubbio in gran parte dovute alla vivacità del dialetto senese e alla capacità che ha nel raccontare la narratrice popolare dalla quale la raccolse nel 1875 Giuseppe Pitrè, uno dei più grandi studiosi italiani di tradizioni popolari che visse fra la metà dell’Ottocento e la Prima guerra Mondiale. Raccolse e commentò innumerevoli manifestazioni della cultura popolare siciliana e italiana e, fra le moltissime sue opere, fondò e diresse, insieme a Salvatore Salomone-Marino, l’«Archivio per lo studio delle tradizioni popolari» (1882-1906), una rivista che accoglieva tutti i tipi di manifestazioni del folklore delle varie zone d’Italia e d’Europa: fiabe, miti e leggende, credenze e superstizioni, usi, costumi e pratiche, proverbi, canti e poesie, giochi, passatempi e indovinelli. Vi contribuirono intellettuali italiani e stranieri e in breve la rivista divenne un punto di riferimento europeo per gli studi di folklore. Il valore del lavoro di Pitrè, sorretto dalla passione e dal rigore filologico, emerge con chiarezza, se anche considerando che gli anni in cui operò sono quelli immediatamente successivi all’unità d’Italia, quando il tema dell’identità nazionale era al centro del dibattito culturale e delle decisioni politiche: raccogliere e pubblicare le testimonianze delle tradizioni di un certo territorio significava allora farle uscire dai loro confini geografici, metterle in relazione con gli usi, le narrazioni, i canti di altri luoghi. Era un modo per stabilire un rapporto fra storia locale e storia nazionale; un rapporto nel quale ciascuna delle due si arricchiva del contributo dell’altra. L’attività di Pitrè e degli altri studiosi italiani di tradizioni popolari tentava di favorire la circolazione della conoscenza e il riconoscimento reciproco da parte di chi viveva in zone geografiche anche molto lontane. Il loro tentativo fu quello di far emergere le peculiarità e le similitudini dei “popoli d’Italia”, la loro opera batteva le vie di un concetto di identità come integrazione delle parti, un’identità articolata e non uniformata, nella quale grazie all’incontro fecondo delle tradizioni locali potesse costruirsi una dimensione nazionale come nuovo spazio di confronto e di espressione. Sappiamo che la storia ha preso un’altra via, che le grandi scelte politiche e culturali non hanno seguito la pista della valorizzazione delle differenze, ma l’opera di Giuseppe Pitrè rimane un tesoro inesauribile, non solo perché possiamo trovare fra le sue innumerevoli pagine testi altrimenti introvabili, ma soprattutto perché è testimonianza di un approccio alla cultura improntato al rigore filologico, all’amore per la propria terra e alla libertà intellettuale. (Vedi anche, nel sito di Claudia Chellini, Percorsi di pensiero, L’amore per la Sicilia e lo studio delle tradizioni popolari in Giuseppe Pitrè) (CC) |
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L'Augel
Belverde Labirinto dell'impegno impossibile Quadrante sud-ovest |
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Insieme ad Hänsel e Gretel la fiaba dell’Augel Belverde non si è fatta collocare in uno dei quattro quadranti, perché la condanna a morte viene agita da attanti parentali maschili e femminili contro discendenti maschili e femminili. Come nella fiaba dei Fratelli Grimm è necessaria l’azione congiunta dei discendenti maschili e femminili per giungere alla liberazione e al lieto fine. Qui inoltre la condanna colpisce sia i discendenti che la loro madre. La versione cinquecentesca che abbiamo scelto per Fabulando è la prima e resta il modello essenziale di questa storia, che dal suo apparire ha avuto una immensa diffusione in Europa, e che all’inizio del Settecento è stata raccontata da un maronita di Aleppo al primo traduttore delle Mille e una notte, Antoine Galland, che la inserì nella raccolta dopo aver esaurito il manoscritto arabo della raccolta dove Shahrazad racconta tante storie, e la pose come ultima storia, prima dello scioglimento della storia cornice. Ma sospendiamo questo argomento per riassumere la fiaba, fornendone la trama strutturalmente comune a tutte le versioni. Tre sorelle di umile condizione sociale si vantano di realizzare in una misura prodigiosa i desideri dei tre personaggi che vrorrebbero sposare. Nell'Augel Belverde, la prima versione di questa fiaba, cinquecentesca, la sorella maggiore promette che se la sposerà il maestro di casa del re disseterà tutta la corte con un solo bicchiere di vino, la seconda che se la sposerà il cameriere personale del re con un solo fuso del suo filo vestirà di camicie finissime tutta la corte. In altre versioni una delle due promette che se la sposerà il cuoco del re farà un pranzo sontuoso per tutta la corte, l’altra che se la sposerà lo stalliere, curerà la scuderia in modo che nessuno abbia mai visto cavalli tanto belli. La terza, che come sempre è la più bella, dice che se il re la sposerà, darà alla luce tre gemelli meravigliosi, due maschi e una femmina, con i capelli d’oro e una stella in fronte. Il re lo sente o lo viene a sapere, e fa sposare le sorelle maggiori ai suoi servitori, mentre lui sposa la minore. La giovane regina dà effettivamente alla luce i bambini che aveva promesso, ma il re ha dovuto lasciarla per recarsi in un paese lontano, e prima di partire l’ha affidata alla propria madre. La regina madre, che odia la nuora di umili origini, con le sorelle invidiose spesso sue complici, sostituisce i bambini con tre cagnoletti, e fa credere al re che la regina abbia messo al mondo non i tre eredi meravigliosi che ha promesso, ma tre animali. In un cantare cinquecentesco la suocera, dopo aver sostituito i bambini, accusa la povera regina di aver tradito il re con un cane (Stella e Mattabruna, in Cantari novellistici dal Tre al Cinquecento. A cura di Elisabetta Benucci, Roberta Manetti e Franco Zabagli. Introduzione di Domenico De Robertis. 2 Tomi; pp. 1018. Roma: Salerno Editrice 2002. XXVIII Cantare, Tomo II, pp. 839-862). In certi casi il re non vorrebbe punire la sua sposa, in altri casi vorrebbe ucciderla: si ricordi che la medicina cinquecentesca attribuiva alla cattiva natura della donna qualunque anomalia del neonato (vedi anche: Favole e scienza). In ogni caso la povera regina innocente, Chiaretta nella versione di Straparola, che la definisce pazientissima, viene rinchiusa in un sotterraneo che comunica con l’esterno attraverso una grata posta sul pavimento della cucina, dalla quale le vengono gettati solo rifiuti. In altre versioni il re fa costruire uno stambugio nel cuore della città e ordina che tutti quelli che passano là davanti devono sputare in faccia alla regina o darle uno schiaffo. La regina madre e le sorelle invidiose avevano messo i principini neonati in una cassettina e l’avevano abbandonata alle acque di un fiume, pensando che sarebbero annegati, invece un mugnaio, in altre versioni un pescatore, un pirata, un eremita o il giardiniere del re, li salva e insieme a sua moglie li adotta. I tre bambini crescono magnificamente e provvedono ad arricchire chi li ha salvati grazie ai loro capelli, dai quali cadono oro perle e pietre preziose. Una volta cresciuti, venendo a sapere che coloro che li hanno cresciuti non sono i loro veri genitori, e partono alla loro ricerca, per arrivare proprio nella città della loro origine, dove vivono in un bel palazzo. Quando il re li vede pensa che così avrebbero dovuto essere i suo i figli e li invita a palazzo, ma la regina madre e le cognate invidiose appena lo sanno capiscono chi sono e tramano per eliminarli prima che il re scopra di essere stato ingannato. La vecchia che li ha abbandonati promette di eliminarli, e va a parlare con la bellissima fanciulla, dicendole che il suo giardino è bello, ma sarebbe molto più bello se ci fossero il pomo che canta, l’acqua che balla e l’Augel Belverde. L’acqua che balla rimanda all’aqua viva degli alchimisti, vale a dire il mercurio o argento vivo, principio vitale. Il pomo che canta rimanda al frutto proibito difficile da conquistare, mentre l’Augel Belverde potrebbe derivare da un mito diffuso in tutto l’Oriente, che racconta di Simurgh, un uccello molto grande e dotato di poteri magici, che dona la pioggia e i semi, vive migliaia di anni e si rigenera come la fenice. Il suo corrispettivo nelle Mille e una notte è l’uccello Ruck, o Rock, tanto grande e forte che può trasportare un elefante, e che spesso consente a un eroe di coprire distanze immense. Questa creatura immensamente potente, che diventa l’aiutante decisivo dell’eroe, potrebbe aver ispirato Toruk Makto, la creatura alata che nel film Avatar appare nel momento dell’estremo bisogno per aiutare il popolo dei Na’vi (Avatar, James Cameron, US 2009). Nella fiaba di Straparola nessun significato mistico viene evocato per l’uccellino, ma qualcosa di sapienziale, oltreché magico, gli resta: “L’ugel bel verde, figliuola mia … dí e notte ragiona, e dice cose maravigliose. Se tu lo avesti in tua balía, felice e beata ti potresti chiamare.” (e-book, p. 52) La principessina pensando a quanto le manca diventa malinconica, e i suoi fratelli gliene chiedono la ragione. Conoscendo il suo desiderio, con entusiasmo o facendosi pregare, a seconda delle versioni, partono uno dopo l’altro per procurarle ciò che desidera. Riescono a prendere il pomo che canta e l’acqua che balla, poi vedono un albero altissimo, circondato da statue di marmo: "E sopra di questo albero l’ugel bel verde saltando di ramo in ramo si trastullava, proferendo parole che non umane ma divine parevano." (Ibid., p. 58) Ma appena toccano le statue i fratelli si pietrificano, fermandosi in muta e immobile compagnia con tutti coloro che hanno tentato e fallito l’impresa. Non vedendoli tornare, la fanciulla, piangendo la loro morte: …determinò tra sé stessa di provare sua ventura; ed ascesa sopra un gagliardo cavallo, in viaggio si pose: e tanto cavalcò, che aggiunse al luogo dove l’ugel bel verde sopra un ramo d’un fronzuto albero dolcemente parlando dimorava. Ed entrata nel verde prato, subito conobbe i palafreni delli fratelli che di erbuzze si pascevano; e girando gli occhi or quinci or quindi, vide li fratelli conversi in due statue che la loro effigie tenevano: di che tutta stupefatta rimase. E scesa giú del cavallo ed avicinatasi a l’albero, stese la mano, ed a l’ugel bel verde puose le mani adosso. (Ibid., p. 58-60). Subito l’uccellino meraviglioso la prega di ridargli la libertà, ma lei risponde che non lo farà prima che lui le abbia insegnato come riportare in vita i suoi fratelli. Così, grazie alle indicazioni dell’Augel Belverde, stacca la piuma rossa che si trova sotto una sua ala e la passa sugli occhi e la bocca delle statue: così tornano in vita non solo i fratelli, ma anche tutti i nobili cavalieri che avevano subito la stessa sorte, che per ringraziarla fanno corteo a lei e ai suoi fratelli sulla via del ritorno. L’uccellino chiede nuovamente di essere rimesso in libertà, ma la fanciulla risponde che non lo farà finché lui non li avrà aiutati a scoprire i loro genitori. Il re che aveva aspettato invano i suoi cari giovani, li rivede e li invita di nuovo a desinare. Li fa sedere alla sua tavola, dove, alla fine del pranzo, vengono posti i tre oggetti magici, che stupiscono la corte con le loro virtù, e l’uccellino verde rivela al re che quelli sono i suoi tre figli, partoriti dalla regina innocente. Le crudeli sorelle della giovane regina e la regina madre vengono giustiziate, mentre viene liberata la regina innocente, ancora bellissima nonostante tutti gli anni che ha trascorso nella sua umiliante prigione. In tutte le versioni dell’Augel Belverde il desiderio delle tre sorelle è realizzare i desideri impossibili di coloro che vorrebbero sposare, siano quelli dello stalliere, del cameriere, del cuoco, del maestro di casa, o del re stesso. Ma le due sorelle maggiori, ottenendo i mariti che desideravano, e mantenendo quanto avevano promesso, diventano invidiose della sorella minore, perché lei ora è la regina, mentre loro sono sposate con due servitori del re. Quanto alla minore, che diventa regina perché promette al re di dargli una splendida discendenza, subisce senza potersi difendere la loro invidia e quella della suocera. Si deve osservare inoltre che il re, dovendo partire per la guerra, non dà alcuna protezione alla sua sposa, lasciandola in balìa della madre. I tre gemelli meravigliosi, dotati di prerogative magiche, vengono condannati a morte dalle tre rivali, mentre la loro madre viene umiliata e sottoposta a incredibili sofferenze. Le tre sorelle mettono la loro potenza a servizio dei futuri mariti, possiamo quindi dire che non esprimono un desiderio personale. La vecchia regina agisce contro la giovane regina per mantenere la sua potenza, che esercita facendo in modo che il re suo figlio abbandoni la sua sposa e la spogli di ogni dignità. Fra i tre principi, che hanno i capelli d’oro, una collana d’oro e una stella in fronte, il gioco del desiderio è ben diverso. La principessa, che pure ha un magnifico palazzo e un giardino meraviglioso, diventa malinconica per il desiderio dei tre oggetti meravigliosi, e i suoi fratelli, a differenza del re loro padre, riconoscono il desiderio femminile al punto di rischiare e quasi perdere la vita per accontentare la sorella. Ma nemmeno l’amore incondizionato di due coraggiosi fratelli basta a soddisfare questo desiderio, e a questo punto la fanciulla stessa intraprende il cammino per realizzarlo. Solo quando lei, il soggetto del desiderio, agisce affrontando l’impresa di persona, la storia si volge verso la soluzione. L’Augel Belverde potrebbe avere una parentela, come abbiamo detto, con l’alato uccello sapienziale delle narrazioni orientali, ma a noi basta osservare che è proprio lui, in quanto oggetto del desiderio, a determinare l’agnizione, dopo la quale il re finalmente riconosce i suoi figli, scopre l’innocenza della loro madre e la crudeltà delle sue sorelle e della vecchia regina. Stiamo lavorando a una delle sezioni speciali di Fabulando, che potrebbe intitolarsi “Il desiderio umiliante. Griselda ovvero l’Augel Belverde”. Anticipiamo qui qualche riflessione. Griselda, protagonista della centesima novella del Decameron, era una bella fanciulla di umili origini, mentre il protagonista maschile era un potente marchese che non si decideva a prender moglie. Un giorno il nobile signore accompagnato dalla sua corte andò nella povera casa di Griselda e disse a suo padre: - Io son venuto a sposar la Griselda, ma prima da lei voglio sapere alcuna cosa in tua presenzia; - e domandolla se ella sempre, togliendola egli per moglie, s’ingegnerebbe di compiacergli e di niuna cosa che egli dicesse o facesse non turbarsi, e s’ella sarebbe obbediente, e simili altre cose assai, delle quali ella a tutte rispose del sì (Decameron; pp. 870). Il marchese di Saluzzo chiese e ottiene da Griselda l’impegno solenne a soddisfare il desiderio del marito – di non contraddirlo mai, e di non mostrarsi mai contrariata o triste per le sue azioni. La novella conclusiva del Decameron, che precede di un paio di secoli L’Augel Belverde di Straparola, non comprende alcun atto magico, ma una incredibile attitudine dei due protagonisti a far subire e a subire crudeltà, in una misura improbabile quanto l'apparizione di una fata. Si racconta quindi che Griselda ebbe due figli dal suo sposo, che glieli toglse, dicendole che essendo figli di una donna di umili origini come lei, dovevano morire. Come tornano alla fine i tre gemelli de L’Augel Belverde, così tornano i due giovani, che il loro padre non aveva ucciso, facendoli crescere in un’altra città. Sia il padre che la madre vivono senza i figli, e Griselda viene umiliata dal marchese che la manda via solo con una camicia per coprirsi, facendole credere che ora si sposerà con una nobile giovane. Alla fine, come ne L’Augel Belverde, il marchese rende a Griselda i figli e la dignità che ha meritato con la sua incredibile pazienza, ma la novella prevede un commento. Il suo narratore non si accontenta del lieto fine, e richiama sia l’ideale cortese per il quale l’altezza dell’animo non dipende dalla posizione sociale, sia il desiderio che Griselda desiderasse e avesse qualcosa per se stessa, in modo che al marchese toccasse, invece del dominio assoluto esercitato con tanta crudeltà, un bel paio di corna. Ricordiamo che sia la giovane regina de L’Augel Belverde, in tutte le versioni della fiaba, sia Griselda, sono private dei figli che hanno dato alla luce, e umiliate come se il frutto del loro seno non fosse degno del loro potente padre: nella fiaba l’attante protagonista è accusata di aver messo al mondo dei cani, nella novella i figli le vengono tolti come se dovessero essere uccisi perché l’origine umile di lei li rende indegni di ereditare i beni e i titoli del padre. In attesa di pubblicare il Grand tour di Griselda ovvero l'Augel Belverde, chiudiamo questa nota con le parole di Dioneo, il narratore della novella, le ultime parole dell’ultima novella del Decameron, che vanno intese in un senso più ampio di quanto potrebbe sembrare a una lettura superficiale: Che si potrà dir qui, se non che anche nelle povere case piovono dal cielo de’ divini spiriti, come nelle reali di quegli che sarien più degni di guardar porci che d’avere soprauomini signoria? Chi avrebbe, altri che Griselda, potuto col viso, non solamente asciutto ma lieto, sofferire le rigide e mai più non udite prove da Gualtieri fatte? Al quale non sarebbe forse stato male investito d’essersi abbattuto a una, che quando fuor di casa l’avesse in camicia cacciata, s’avesse sì ad un altro fatto scuotere il pelliccione, che riuscita ne fosse una bella roba. (Ibid. p. 879). (AG) In Fabulando sono presenti altre versioni di questa fiaba: Princesse Belle Étoile di M.me d'Aulnoy, L'uccello Bulbul Hezar di Antoine Galland, Le figlie dell'erbivendolo, fiaba siciliana raccolta da Giuseppe Pitrè, Il canto e il sòno della Sara Sibilla, fiaba toscana raccolta da Gherardo Nerucci. |
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Princesse
Belle Étoile Labirinto dell'impegno impossibile Quadrante sud-nord-est-ovest |
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Possiamo leggere ora una fiaba elaborata dopo Perrault secondo il gusto dei tempi del Re Sole e ampliata fino a diventare un piccolo romanzo di formazione. Ma le aggiunte narrative non arricchiscono il senso né il ritmo della fiaba, che ha nelle sue versioni popolari, di cui Fabulando propone la versione toscana Il canto e 'l sono della Sara Sibilla e la siciliana Le figlie dell'erbivendolo, la stessa pregnanza dell'Augel Belverde, la prima versione letteraria di questa storia. Le versioni delle fiabe narrate da un autore, o un'autrice, come in questo caso, che vuole, svilupparle, per così dire, o arricchire, presentano un aumento di personaggi, di connotazioni psicologiche dei personaggi, o di episodi. I bambini abbandonati in questa versione diventano quattro, e solo una delle due sorelle è invidiosa e trama tutti gli inganni in combutta con la madre del re. L’altra muore dando alla luce un bambino, il quarto, appunto, che crescerà allevato insieme ai tre figli del re e della regina da un pirata pentito. La crudeltà delle umiliazioni inferte alla regina innocente è attenuata, e la sua origine non è più umile: è una nobile priva di ricchezze. L’aggiunta del quarto bambino permette alla narratrice, Madame D'Aulnoy, di arricchire il lieto fine con le nozze fra la figlia del re e il figlio della sorella buona della regina, che fino a un certo punto si credeva suo fratello. Ci pare in ogni caso che l’equilibrio narrativo delle fiabe sia la loro vera magia, simile a una impadroneggiabile grazia, a una benedizione che scende sulla catena dei narratori, in gran parte ignoti, che la rinarrano per secoli sotto diversi cieli. Pregnante, feconda come l’umile protagonista di queste fiabe, può essere costretta in una forma particolare o arricchita con un nuovo personaggio. Ma la tradizione continua lasciando da parte le varianti autoriali che, per quanto abbiano un senso o possano affascinare, non aggiungono nulla all'equilibrio narrativo della storia. (AG) |
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L'Oiseau
Bulbul Hezar Labirinto dell'impegno impossibile Quadrante sud-nord-est-ovest |
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Questa fiaba, una delle tante varianti dell'Augel Belverde, è un vero gioiello, per chi ami seguire le migrazioni e gli scambi favolosi fra culture diverse. Come l'Augel Belverde si trova nel quadrante sud-nord-est-ovest, e la sua ingiunzione è il Patibolo della condanna a morte. Certe fiabe si somigliano tra loro come fratelli e sorelle, e i loro caratteri, derivando dai loro genitori - le versioni che le hanno precedute, più vicine nel tempo e nello spazio - sono però impossibili da attribuire con certezza all’uno o all’altro, potendo venire da loro simili più lontani e dimenticati. Un Sultano, camminando nella notte in incognita per le vie della sua città, sentì tre sorelle che promettevano difare cose meravigliose se avessero sposato il panettiere, il capo cuoco e proprio lui, il sovrano. il Sultano diede alle due sorelle maggiori i mariti che avevano desiderato, e sposò la terza, la più bella, che aveva detto:
La sposa del Sultano diede alla luce i tre meravigliosi bambini che aveva promesso, non in un unico parto come ne L'Augel Belverde, ma un anno dopo l'altro. Le sorelle invidiose, qui nel ruolo altrove svolto dalla vecchia regina madre, cercarono di eliminarli abbandonandoli alle acque e sostituendo loro prima un cagnolino, poi un gattino, e infine un pezzo di legno. Dopo la terza nascita il Sultano punì la povera sposa imprigionandola alle porte della città e ordinando che tutti quelli che passavano le sputassero in faccia. Come in tutte le storie di questo tipo, i tre principi meravigliosi vennero salvati, in questa storia dal giardiniere del sultano, che li crebbe con ogni cura. Le sorelle invidiose non perseguitarono i principi una volta cresciuti, e il desiderio dei tre oggetti magici venne da un motivo orientale: una vecchia devota visitò il palazzo dei tre principi, e pur trovandolo bellissimo disse alla principessa che le mancavano tre oggetti meravigliosi: l'albero che canta, l'acqua d'oro che non smette mai di zampillare, e l'uccello Bulbul Hezar. Il motivo della vecchia devota, che suggerisce alla principessa cosa le manca nel suo magnifico palazzo, è nell'episodio finale della storia di Aladino e la lampada meravigliosa, spesso mancante nelle versioni più diffuse. (Vedi anche, a questo proposito, Adalinda Gasparini 1993, in particolare il capitolo sesto, Da servo a padrone, da padrone a servo: l'uovo del Rukh, pp. 165-184) Come nelle altre versioni di questa storia, i fratelli partirono senza esitare per far felice la sorella, ma alla fine si trasformano in statue. La principessa a sua volta partì per cercarli, conquistò il magico Bulbul Hezar e riportò in vita i suoi fratelli. Grazie al magico uccello avvenne, come in tutte le versioni, la finale agnizione con la liberazione della Sultana calunniata, la punizione delle sorelle invidiose e un magnifico corteo regale con ali di folla acclamanti. La storia fu narrata a Parigi da Hannà, arabo cristiano maronita di Aleppo, al primo traduttore europeo delle Mille e una notte, Antoine Galland, che cercava altre storie per la sua raccolta, avendo esaurito il manoscritto siriano del XIV secolo, con un immenso successo di pubblico. Il titolo che Galland diede a questa storia è Histoire des deux sœurs jalouses de leur cadette. L'uccellino parlante, che renderà possibile l'agnizione e il lieto fine, si chiama qui Bulbul Hezar, ed è impossibile dire se il nucleo sia venuto dall’Oriente, o se sia arrivato in Siria dall’Europa. Il veneziano Straparola, che potrebbe aver vissuto a lungo in Oriente con un incarico della Serenissima repubblica di Venezia, potrebbe aver rielaborato un motivo orientale. Ma il maronita Hannà doveva considerare la fiaba dell'uccello Bulbul Hezar come appartenente alla tradizione del suo paese, e Antoine Galland non esitò a pubblicarla a conclusione delle sue Mille e una notte. Ricordiamo che al maronita, di cui conosciamo l'esistenza dal diario di Antoine Galland, si devono alcune fra le storie più famose incluse nella raccolta araba a partire da Antoine Galland, nessuna delle quali figura nei manoscritti delle Mille e una notte precedenti la prima traduzione francese. Fra queste, Aladino e la lampada meravigliosa, Alì Babà e i quaranta ladroni, Il cavallo d'ebano (vedi, a questo proposito, Adalinda Gasparini 1993, in particolare Appendice al capitolo quarto. Una storia della storia di Aladino: Kabikàj - Fiaba originaria e sogno originario. Un contributo psicoanalitico al problema filologico, pp. 81-97). Fabulando offre l'e-book de L'Oiseau Bulbul Hezar, con due versioni, entrambe solo in lingua originale: quella che Galland scrisse sul suo diario avendola sentita dal maronita di Aleppo, e quella che pubblicò a conclusione delle sue Mille et une nuits. Il lettore, anche non specialista, potrà osservare come lavorava l'arabista viaggiatore e traduttore che introdusse in Europa la grande raccolta araba, che avrebbe influenzato profondamente l'immaginario europeo, e che, a sua volta, avrebbe stimolato le prime edizioni arabe della raccolta, apparse dall'inizio del XIX secolo (per una breve storia delle versioni delle Mille e una notte, vedi Adalinda Gasparini 2003b). (AG) |
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Le
figlie dell'erbivendolo Labirinto dell'impegno impossibile Quadrante sud-nord-est-ovest |
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Non esiste forma narrativa più democratica delle fiabe, che abitano con la stessa grazia nei templi della cultura come nelle aie contadine. Né esistono racconti che più delle fiabe possano essere amate con lo stesso slancio spontaneo da bambini e adulti di religioni o ideologie diverse e in guerra fra loro. Dalla corte del Re Sole e dal finale delle Mille e una notte basta un passo per andare nella Sicilia di fine Ottocento, ad ascoltare con Giuseppe Pitré la stessa storia da una narratrice analfabeta. Possiamo quindi riprendere il racconto dall’impresa della fanciulla, legata ai fratelli tanto che ciascuno dei tre è disposto a rischiare la vita per gli altri. Questo legame amoroso fra maschi e femmine resiste a tutte le prove, e per questo la nuova generazione può sciogliere le trame invidiose che hanno fatto la disgrazia della loro madre innocente. Nelle fiabe, ogni volta che un re non protegge con la sua presenza la sposa, questa cade in balìa delle antagoniste. Qui come in tutte le altre versioni, quando il re vede i tre giovani pensa che somigliano ai figli che la sposa gli aveva promesso, e li invita nel suo palazzo. Ma le sorelle invidiose capiscono chi sono, e con le loro trame li allontanano, credendo di eliminarli per sempre. Essendo una versione popolare de L'Augel Belverde, si rimanda alla nota relativa a questa fiaba, nonché alle altre tre varianti proposte da Fabulando: Il canto e 'l sono della Sara Sibilla, L'Oiseau Bulbul Hezar, e Princesse Belle Étoile. (AG) |
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Il
canto e 'l sono della Sara Sibilla Labirinto dell'impegno impossibile Quadrante sud-nord-est-ovest |
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La prima delle due preziose versioni popolari dell'Augel Belverde è toscana e la creatura alata e parlante, in ogni versione dotata di sapienza divinatoria, si trasforma nel canto e ’l sòno della Sara Sibilla, difficile da avere quanto l’uccellino e altrettanto magico. È come sempre la sorella a farselo dare prendendo per i capelli la Sara Sibilla, ..un’ombra smensa, co’ capelli lunghi ciondoloni per le spalle. Sara potrebbe stare per sacra, e le sibille erano sacre nella mitologia antica. Questa figura, che è un frammento della cultura latina nel racconto popolare, dà accesso a una verità difficile da far emergere, come nel mondo classico divinava e rendeva possibile l’accesso al regno dei morti. Ma cos’è questa cosa nominata come ’l canto e il sòno col quale la fanciulla riporta in vita i fratelli pietrificati, libera la madre dalla sua lunga pena e ritrova i genitori? Un arnese, spiega la narratrice analfabeta al professor Gherardo Nerucci che la ascoltava e scriveva, ma com’era fatto nun si sa. Quel che ci dice è che l’impresa finale e risolutiva è far emergere una parola vera, che dissipa in un batter d’occhio la menzogna dell’invidia che aveva diretto gli eventi al posto del re assente e della madre priva di difesa. Parola, lo ricordiamo, ha la stessa origine di parabola, di fabula e di fiaba. (AG) |
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Sivka-Burka Labirinto dell'impegno impossibile Quadrante nord-est |
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Quando abbiamo letto questa fiaba russa la nostra raccolta di fiabe era già ricca con i suoi sessantasei racconti. Inserire una nuova fiaba è un lavoro complesso, del quale la preparazione degli e-book, italiano e inglese, è solo una parte. Ma la rappresentazione poetica dell'eros maschile che si trova in questa fiaba è insuperabile, e volevamo che Fabulando lo avesse insieme agli altri suoi gioielli. Il piccolo Ivan, disprezzato dai fratelli maggiori come Cenerentola dalle sorelle, sostituisce i fratelli che non hanno voglia di passare una notte sulla tomba del padre a portargli il cibo che ha chiesto di ricevere per tre giorni dopo la sua sepoltura. Non rivela al padre l'assenza dei fratelli, e solo la terza notte, quando sta a lui onorare il padre morto, gli si presenta. Il padre in questa sua ultima apparizione nel mondo terreno sceglie di dotare magicamente il figlio minore, rivelandogli dove trovare e come chiamare Sivka-Burka, il cavallo magico. Il piccolo Ivan sta sempre accanto alla stufa come Cenerentola sta accanto al camino, Chi considera troppo diversi un padre che viene dall'aldilà e la Fata Colomba di Basile, può ricordare che nella versione di Cenerentola dei Grimm, Aschenputtel chiede al padre un rametto di nocciolo, e piantandolo sulla tomba della madre fa crescere un alberello, sul quale compare un uccellino bianco che le fornisce abiti e scarpette meravigliose, proprio come la fata del dattero della versione secentesca. Non abbiamo in Fabulando, una delle versioni popolari nelle quali è direttamente la madre morta, che riappare come una pecora o una vitella, o anche come una betulla o un altro albero, a proteggere dalla crudeltà delle sorelle o delle sorellastre la sua figlia più piccola, per poi dotarla delle vesti con le quali si presenterà al figlio del re e lo farà innamorare. Le fiabe non comprendono un aldilà, per quanto sia frequente e quasi regolare l'apparizione di creature ultramondane nell'aldiqua. Quando la fiaba comincia l'orizzonte è sempre solo umano, e torna solo umano alla fine. La fiaba comprende l'invisibile, ma non lo struttura come un mondo parallelo, a differenza del mito, sia nel politeismo che nel monoteismo. Solo scegliendo di essere ottusi possiamo non accorgerci dell'ignoto che ci |